Noi abitavamo ancora a San Giovanni allora…
Il 15 Agosto era sagra grande a Barbarano e per quell’occasione avevamo avuto il permesso di andare a fare festa, naturalmente coprendo il percorso a piedi. I più grandi si erano già incamminati, i più piccoli sarebbero andati con la moto Ariel col papà e la mamma. L’ultimo ad uscire, e quindi a chiudere la porta dopo aver controllato sommariamente che tutti fossero usciti, è stato Ulisse.
Il ritorno a casa era previsto per la cena; naturalmente non tornammo tutti assieme.
Gigi fu il più veloce, trovò la porta aperta e perciò salì per entrare in cucina ma, giunto alla fine della scala, trasalì al sentire uno strano tum….tum...tum…. Era sicuro di essere stato il primo a tornare a casa, perciò quel rumore cosa poteva essere? Forse uno spirito...Cosa fare in quei casi se non ricorrere ad un antidoto? Cominciò a tremare e a recitare a voce alta il Padre nostro e senza dubbio l’espediente funzionò perché il rumore cessò, una porta si aprì e comparve sulla soglia...la Teresa che per sbaglio, essendosi attardata, era rimasta chiusa in casa e per passare il tempo si era messa a giocare a palla. (Paola)
Quando ero piccola ricordo volentieri quando il papà scherzava con noi e ci faceva giocare, ricordo però anche l’intransigenza quando combinavamo qualche marachella.
Quel giorno eravamo in vacanza, probabilmente per Pasqua e abitavamo a San Giovanni. Noi eravamo tutti a casa, anche Bepi che di solito era in collegio. Quando arrivavano animali nuovi, noi eravamo tutti contenti (più ancora di quando arrivava un fratello o una sorella). Quella volta si trattava di pulcini, delle palline di piume gialle pigolanti, vegnea voia de strucarli.
Nel pomeriggio questi animaletti viaggiavano liberi nel cortile e noi bambini anche. Erano venuti a giocare con noi anche la Bruna, la Carletta e Ottorino. Io ero tutta felice di correre avanti e indietro col monopattino sulla superficie cementata del cortile.
Improvvisamente... il dramma. Un pulcino finì sotto le ruote spiaccicato! Grande angoscia e dispiacere, ma cosa fare? Andare a dirlo a mamma voleva dire prendere una solenne sculacciata e prendere un castigo; dirlo al papà significava prendere una punizione ancora più severa: a volte usava un bastone o la frusta.
Io preferii la strada della vigliaccheria; presi il pulcino per una zampa e lo gettai nel letamaio. Quando alla sera il papà contò i pulcini per farli entrare nel pollaio e si accorse che ne mancava uno, ben presto scoperse il delitto nel letamaio. Fece l’appello di tutti noi, ci mise in fila indiana brandendo la frusta e guardandoci negli occhi (capitava raramente) ci interpellò uno ad uno:
“Bepi, sito stà ti?”, “Maria sito stà ti?”. Io ero tra gli ultimi, ma sentivo che le gambe non mi reggevano e il cuore mi scoppiava. Arrivato alla Agnese: “Gnese sito sta ti?” la mamma finalmente intervenne: “Scolta Ulisse, qua ancò ghe iera la Bruna che la ndava vanti e indrio col monopattino; la sarà stà ela!”. Questo bastò per scoraggiare il papà a proseguire nelle sue indagini. Per merito della mamma avevo scampato un bel pericolo e non ero stata neppure costretta a dire una bugia.
Grazie mamma.
(Paola)
Una sera a San Giovanni era venuto a casa nostra a trovarci don Vittorio. Ricordo che era una giornata estiva e quindi fuori era ancora chiaro, ma naturalmente noi bambini dovevamo lasciare i grandi tranquilli e quindi… tutti a letto. A me don Vittorio stava molto simpatico e perciò non la presi bene di rinunciare alla sua compagnia così repentinamente. Andai sì a letto, ma poi nella testolina mi frullò un’idea balzana. Forse se facevo la rompiscatole sarei stat un minuto di più con i grandi, se non altro perché dovevano venire a zittirmi. Mi misi perciò a chiamare: “Me scampa da pissare! Portème el bocale”. Dapprima piano piano, poi più forte, ed infine a tutta voce: “Me scampa da pissareeee! Portème el bocaleeee!”. Purtroppo la mia impertinenza si concluse senza soddisfazione. Qualcuno chiuse ben due porte….ed io finalmente chiusi i miei occhi e mi addormentai
Una mattina di lavoro, chiedo come al solito i dati anagrafici alla persona che si presenta: “Sono Silverio Dalla Rosa nato a Barbarano Vicentino ecc.” Incuriosita lo interrogo: “E’ nato in una frazione di Barbarano?” “Sì” mi risponde, “a San Giovanni in monte sui colli Berici”. E io: “Ti ricordi di me? Abitavo alle scuole di San Giovanni, da piccoli abbiamo giocato insieme”.
Avevo 5 anni e conobbi Silverio quando iniziò la prima elementare nella scuola dove insegnava Ulisse. Abitava in una contrada poco lontano e il pomeriggio andavamo insieme nel prato vicino dove lui custodiva le mucche che pascolavano. Quando faceva freddo ci rifugiavamo nella stalla e inventavamo giochi con i conigli, gli anatroccoli, ecc. Una mattina di primavera stavo giocando con le sorelle, ero in piedi sul muretto che delimitava il cortile della scuola quando vidi la mamma correre verso di me gridando: “La coroncina…..dove hai messo la mia coroncina?”. Si trattava di un piccolo gioiello custodito in una scatola d’argento, dono di nozze suppongo. “L’ho regalata a Silverio” dovetti confessare. Quell’oggetto mi era piaciuto tanto e io ne avevo fatto dono al mio amico più caro. Compresi solo in quel momento di aver fatto una sciocchezza, mi feci ridare l’oggetto che tornò alla legittima proprietaria. Davanti a quell’uomo, quarant’anni dopo, mi chiedevo se nella sua mente esistesse ancora il ricordo di quel periodo dell’infanzia… Certamente non potrà mai immaginare che la nostra piccola storia sarebbe stata raccontata a tutta la compagnia riunita per la festa della nostra cara mamma Clelia.
(Lucia)
Quando eravamo piccoli, era consuetudine andare alla Messa ed anche alle Funzioni del pomeriggio. Nella chiesa nuova di S. Giovanni, in quella Domenica d’estate, don Vittorio era particolarmente arrabbiato con quei fedeli tiepidi che vanno in chiesa quando non hanno niente altro da fare. Io ascoltavo zitta e buona in prima fila, ma facevo fatica a stare tranquilla perché ero molto eccitata da un grande avvenimento per la nostra famiglia: l’acquisto di alcune sedie nuove. Portato dall’enfasi della sua predica, ad un tratto don Vittorio esclamò: “Guai a quei fedeli che vengono in chiesa solo per scaldare le sedie!”. Non occorreva altro per sbloccare la mia emozione: “Ma mi go le careghe nove!” interruppi.
Grande risata di tutti i presenti e soprattutto delle mie sorelle più grandi che poi per un anno mi presero in giro ridacchiando di me. (Paola)
Io voglio ricordare alcuni episodi che si riferiscono alla parte anatomica che va dalla vita in giù di due delle mie sorelle. Abitavamo ancora a San Giovanni ed io e Agnese giocavamo spesso a “casetta” o su alle Fontanelle vicino alla priara o su una specie di pianerottolo di roccia non facilmente accessibile e attorniato da russe e “spinarui”, cioè rovi, per farmi capire dai cognati e dai nipoti. Mentre eravamo intente alle nostre fantasie, arriva una delle sorelle più piccole strillando che voleva salire anche lei; noi naturalmente facemmo di tutto per dissuaderla, ma, alla fine, sfinite dalla lagna, la prendemmo con noi e la ignorammo del tutto. Lei cominciò a trotterellarci attorno entusiasta di aver vinto la battaglia. Era ancora molto piccola perché girava senza mutande: questo espediente evitava alla mamma di dover lavare continuamente. In quell’occasione però il sedere nudo le procurò un sacco di dolori in più, perché la bimba mise un piede in fallo e finì sopra un cuscino di rovi, restando per così dire sospesa a due metri da terra. Le urla di dolore e di paura attirarono i grandi che non sapevano come fare a liberarla. Fortunatamente passò di lì Silvio Cervellin munito di forca, e fu proprio quello lo strumento di salvataggio per quella sorella sfortunata. L’avventura terminò con l’accurata “despinazione” da parte del papà che alla fine dell’operazione perse qualche decibel di udito a causa di strilli inumani.
(Paola)