LA CASA DI ZOVENCEDO
La prima casa della famiglia Zeffiro era di proprietà della parrocchia; si pagava un modesto affitto annuale al prete, come era costume del tempo, la parrocchia dava questa casa in affitto ai maestri che lavoravano nella scuola del paese.
A confronto delle altre case era in discrete condizioni; Ulisse aveva ricavato sotto al porticato al pianterreno una specie di cucina; il pavimento era in terra battuta, i muri erano fatti di pietre tenute insieme da un po’ di calcina. Al piano di sopra c’erano due stanzette da letto. Il piano di sopra era collegato al pian terreno da una scaletta esterna; di notte, in inverno, per scaldare il latte per i piccoli che piangevano bisognava quindi scendere in cucina attraverso la scala esterna; era completamente buia, allora immaginate cosa succedeva nelle notti di pioggia o durante le frequenti bufere di neve.
In questa casa si abitava in otto.
Naturalmente non esisteva l’acqua corrente in casa, bisognava attingerla dalla fontana del paese; per lavare, invece bisognava andare ad una fontana che si trovava giù per un sentiero ripido e scosceso.
Ogni giorno si andava a prendere l’acqua col “bigolo” (una specie di palo ricurvo che si metteva sulle spalle e alle cui estremità si appendevano due secchi); ne occorrevano come minimo due secchi per la cucina. Ulisse aveva inventato una specie di rubinetto fatto con una canna che pescava in un recipiente appeso fuori dalla finestra della cucina. Si lavavano i piatti con un filo d’acqua, bisognava farla bastare.
Ovviamente a Zovencedo non esisteva la corrente elettrica (inizialmente non c’era neppure a San Giovanni) e quindi non c’era l’illuminazione elettrica. Per far luce si usava il “canfin”, una specie di lanterna a petrolio.
Per scaldarsi, nei primi anni, si usava il caminetto (anche a scuola si usava ancora il caminetto negli anni quaranta); solo più tardi arrivarono le prime stufe. Ulisse profittò della stufa scartata dal comune di Zovencedo che voleva acquistarne una nuova.
Un’altra importante miglioria venne alla fine della guerra, quando Ulisse acquistò dei mattoni per pavimentare la cucina (Clelia se lo ricorda bene perché è stato il giorno in cui è morta sua mamma Marina).
Tuttavia, nel tempo, la casa diventò sempre più stretta e, ad un certo punto, impossibile a contenere tutta la famiglia; anche per questo fu necessario trasferirsi a San Giovanni.
PRIMI TEMPI DEL MATRIMONIO
Dicono che l'amore non è bello se non è litigarello; Clelia e Ulisse non fecero eccezione. Sarebbe una bella fiaba se dicessimo che vissero sempre felici e contenti, d'amore e d'accordo. I contrasti ci furono; del resto già da fidanzati non mancarono litigi e incomprensioni. Diciamo che, in generale, ci furono alti e bassi. In questa sede non è opportuno rivangare le cause di queste situazioni, se non altro perchè bisognerebbe dare voce ad entrambe le parti in questione. E a cosa servirebbe rievocare i momenti di divisione?
Ci basti un semplice episodio: era arrivata della posta importante per Ulisse; si trattava di una circolare alla quale lui doveva rispondere urgentemente in quanto era capogruppo e responsabile. Clelia, non sapendo che si trattava di una lettera importante, la ripose in un angolo e si dimenticò di riferirne ad Ulisse. Quando venne a saperlo lui si infuriò oltremodo e per un bel pò di tempo non rivolse più la parola alla giovane e sbadata consorte. Altre volte, riferisce Clelia, Ulisse se la prendeva per cose che lei assolutamente non notava o che considerava irrilevanti, tanto da mettersi a ridere quando lui se ne risentiva. Insomma erano due modi di percepire la realtà molto diversi e difficili da conciliare. Clelia imparò a tacere e a non dare troppo peso alle arrabbiature di Ulisse. Comunque i primi tempi non furono certo idilliaci.
Resta il fatto che Ulisse ci teneva tantissimo alla famiglia; non vedeva l'ora di avere dei figli, tanto è vero che dopo tre mesi di matrimonio, visto che la moglie non era ancora incinta, disse scherzando che se non arrivavano figli lui avrebbe chiesto il divorzio. sappiamo che Clelia poi l'avrebbe abbondantemente accontentato!
I PRIMI FIGLI
Il primogenito Giuseppe (detto Bepi) nacque nel gennaio del 1940; poi venne Maria, nel settembre del 1941, Teresa nel maggio del 1943, Gianni nel novembre del 1944 e Gigi nel settembre del 1946. Erano gli anni della guerra. Clelia era tanto in pensiero perchè temeva di dover scappare. Essendo incinta il pensiero diventava ancora più angosciante. Mancavano anche i generi di prima necessità; tuttavia, avendo già tanti figli, era possibile disporre di un maggior numero di tessere per l'acquisto di alimentari (per esempio lo zucchero e il sale). Il sale era un grosso problema perchè non se ne trovava proprio; ci si adattava a mangiare la polenta senza sale e il pane nero.
Ulisse, con il suo proverbiale ingegno, era riuscito a ricostruire una specie di stufa con dei pezzi di cotto, così Clelia poteva, quando trovava un pò di farina, preparare il pane in casa; manco a dirlo, era una festa! Era raro trovare la farina, allora, pur di mangiare un pò di pane, Clelia partiva alle cinque di mattina, si metteva gli zoccoli, anche in pieno inverno con la neve, e, con il suo grosso pancione di mamma, si recava fino a Barbarano dal fornaio (circa nove chilometri di andata e nove chilometri di ritorno). Questo significava alzarsi alle quattro del mattino, in modo che il pane fosse disponibile per la colazione dei marito e dei bambini; significava anche camminare per chilometri e chilometri al buio, dato che non c'era nessuna forma di illuminazione pubblica. Anche per lavare alla fontana del paese bisognava alzarsi e lavorare al buio; quando Clelia faceva "la broa" (cioè il bucato delle lenzuola) non sapeva neppure se le lenzuola fossero pulite o no dato che non si vedeva niente. Non esisteva la tela gommata, l'unico grembiule era una tela di sacco che, bagnandosi, diventava tutta un pezzo di ghiaccio; allora Clelia e il suo pancione dovevano tornare a letto per tentare di riscaldarsi un pò. O almeno non congelare.
La cucina era gelida; d'inverno anche il latte gelava sulla tavola.
Maria dormiva su una "culla" di fortuna che Ulisse aveva ricavato da poche tavole; spesso si riempiva di cimici, una vera persecuzione di quegli anni. Una notte Clelia si svegliò e vide con orrore che tutti i cimici scorazzavano indisturbati sul corpo e sul visetto della bambina. Cimici, pulci, zanzare e mosche erano purtroppo una compagnia abituale per le case di campagna. Quando arrivò il famoso DDT, fu salutato come una liberazione mandata dal cielo; tutto quello che si poteva disinfettare fu disinfettato e finalmente i cimici sparirono. Bastava un solo trattamento e per quindici giorni sparivano tutti gli insetti, mosche comprese. Nessuno a quei tempi sapeva quali pericoli comportava l'uso del DDT.
Prima del DDT i rimedi erano molto ingenui e naturali: per esempio si stendevano sulle lenzuola delle foglie di fagiolo, così i cimici venivano attirati nella foglia ed eliminati. Ogni tanto (ogni quindici giorni), si portavano all'aria aperta le tavole e i cavalletti dei letti e si versava sopra dell'acqua bollente per arginare l'infestazione dei cimici. Naturalmente le uova sopravvivevano e dopo qualche giorno la colonia tornava a proliferare allegramente.
Bisogna rilevare che a quei tempi non si usava fare il bagno, soprattutto d'inverno; i giovani si lavavano (raramente) il collo e la faccia (forse le ascelle); ma Clelia riferisce di non aver mai visto gli adulti e i vecchi lavarsi o cambiarsi (per lo meno d'inverno).
L'acqua non esisteva in casa, bisognava portarla con i secchi e con il "bigolo" (attrezzo in legno per portare due secchi sulle spalle); Clelia, quando era ragazza, si lavava in stalla, dove c'erano mucche, galline, letame, ecc. Una volta, dopo essersi lavata, si recò in chiesa; durante la Messa sentì un prurito che diventava via via sempre più forte e fastidioso. All'uscita guardandosi e riguardandosi scoprì che i "peocini" (piccoli pidocchi) delle galline l'avevano infestata; era successo quando si trovava nella stalla per lavarsi, aveva appoggiato i suoi vestiti sopra alla gabbia delle galline e lì i peocini si erano installati.
I peocini erano un grosso problema per le galline che talvolta ne morivano; si cercava di arginare i parassiti con un pò di cenere (specie di toccasana, disinfettante, disinfestante universale, ecc.); con quali risultati lascio a voi immaginare.
Un altro problema per i pollai erano i ladri di polli, un vero flagello; riferisce Clelia che in una notte portavano via anche dieci o dodici polli e per la sua famiglia era una vera e propria disgrazia perchè i polli erano una risorsa alimentare insostituibile (soprattutto per le uova). Si era poveri e molti lo facevano semplicemente per sopravvivere; si sapeva chi erano i ladri di polli, ma non si faceva nulla di serio per fermarli perchè si sapeva che erano nel bisogno più estremo. Era gente che potevi ritrovare tranquillamente in chiesa la domenica. Clelia pensa che forse non facevano neanche peccato perchè rubavano per non morire di fame. Erano tempi di guerra, tempi di fame. Si mangiava anche la frutta cruda pur di mangiare qualcosa.
IL PERIODO DELLA GUERRA
Gli anni che vanno dal 1940 al 1945 sono segnati dalla paura. Paura dei bombardamenti, dei rastrellamenti, della mancanza dei beni di prima necessità, paura per i bambini ancora così piccoli e indifesi.
Durante la guerra mancava tutto; anche se avevi qualche soldo non si trovava niente; per fare i maglioni bisognava comprare la lana e filarla; per fare le lenzuola bisognava comprare il “canevo” (cioè la canapa) e filarlo; si allevavano i conigli d’angora per “pelarli”, (cioè strappargli il pelo) e filare la lana d’angora. Povere bestie! Clelia racconta che li teneva stretti stretti per pelarli; per un po’ stavano fermi ma poi si dibattevano disperatamente per tentare di liberarsi.
Comunque, se le bestie stavano male le persone non stavano meglio!
Gli allarmi per i bombardamenti erano frequenti; d’inverno, la notte, bisognava prendere i bambini piccoli in braccio, avvolgerli in una coperta e scappare nel rifugio. Tristemente famoso era l’aereo chiamato “Pippo”; faceva un rumore cupo, lontano e sinistro; allora bisognava chiudere tutte le finestre e mettere delle tavole perché non filtrasse la luce all’esterno; si viveva nell’ansia.
Un altro motivo di paura erano i partigiani; una volta entrarono in casa in cinque o sei con il mitra spianato per prendere Ulisse. Non era gente del paese, ma gente dei dintorni; volevano vedere se in casa c’erano divise fasciste, perciò rovistarono dappertutto rovesciando armadi e cassetti; l’unica cosa che presero fu un bacile di sale. In casa c’erano quattro bambini piccoli (Bepi, Maria, Teresa, Gianni); Clelia li supplicò piangendo di risparmiarli e i partigiani se ne andarono.
Ma perché ce l’avevano con papà? In paese la figura del maestro era molto in vista, come il parroco, o il segretario comunale. Ulisse aveva ingenuamente aderito al fascismo in primo luogo perché era necessario avere la tessera fascista per lavorare come maestro nella scuola; in secondo luogo perché dal fascismo prendeva gli aspetti non ideologici che servivano alla vita sociale del paese. Per esempio l’istituzione del gruppo “massaie rurali”: attraverso una tessera si potevano ottenere degli arnesi di lavoro come mulinelli per filare, canapo, agnellini da allevare e altro; le massaie rurali si riunivano per andare incontro ai bisogni che venivano segnalati in paese, erano quindi una forma di solidarietà con i più deboli. Inoltre, attraverso il fascio, Ulisse otteneva dei pacchi dono contenenti indumenti per le famiglie più povere. Anche la refezione scolastica era un’iniziativa di tipo fascista; manco a dirlo la cuoca che era Clelia, inoltre Clelia doveva anche rammendare le divise dei giovani balilla (anche questa iniziativa era a carico del “maestro”). Naturalmente tutto questo si aggiungeva al lavoro “ordinario”. Ulisse si interessava molto al bene comune e in questo senso “faceva politica”; tutte le informazioni che aveva sul fascismo erano filtrate da giornali di partito che naturalmente esaltavano solo gli aspetti positivi del movimento.
Al segretario e all’impiegato comunale di Zovencedo, i partigiani riservarono una fine orribile: li prelevarono di notte dalle loro case, li portarono nelle scuole e lì, presi due pali da vigna li massacrarono di botte; non ancora contenti gli cosparsero la faccia di lisoformio; erano ridotti come mostri; l’agonia del segretario durò circa quindici giorni e fu terribile; più fortunato l’impiegato che sopravvisse “solo” una settimana; aveva quattro bambini piccoli (uno di questi, da grande, partì per fare il missionario). Faceva compassione anche ai sassi. Provate ad immaginare la paura della famiglia di Clelia e di Ulisse; si aspettavano che qualcosa del genere capitasse anche a loro.
Del resto il clima storico era di una violenza inaudita; si pensi ai sette ragazzi partigiani torturati e massacrati in modo atroce a Grancona in un’imboscata tesa dai fascisti (le mura della chiesetta erano coperte da schizzi di sangue).
Caduto il fascismo e finita la guerra, nel 1945, Ulisse, in seguito alle “epurazioni”, venne destituito dalla scuola per sette mesi e inviato, per punizione, a rompere la ghiaia nella strada del comune di San Gottardo; la famiglia rimase sette mesi senza alcuna entrata e dovette dar fondo ai pochi risparmi.
Non è stata questa l’umiliazione peggiore; molto più dura era stata una donna che, passando sotto alle finestre della nostra casa, inveiva contro il “maestro” che, a suo dire, aveva denunciato il figlio come disertore e per questo era stato inviato in Germania in un campo di concentramento. Al ritorno di questo giovane tutto venne chiarito. Erano stati quelli del Comune a denunciare il ragazzo (cioè il segretario comunale e l’impiegato); Ulisse non si sarebbe mai neanche sognato di fare una cosa del genere; lui non avrebbe mai denunciato nessuno, voleva solo fare il bene della gente.
Chiaria la faccenda, Ulisse non serbò rancore alla donna (Ulisse era incapace di odio o vendetta, anche le umiliazioni più dure lo lasciavano tranquillo e sereno perché aveva la coscienza a posto), anche lei si pentì del male che gli aveva fatto denigrandolo davanti a tutti e si ristabilirono dei buoni rapporti.
Del resto Ulisse era benvoluto da quasi tutto il paese.
GALLINE, CONIGLI E GATTI
Uno dei regali di nozze che Clelia ricevette dalla mamma fu un paio di galline; da quel momento, sia a Zovencedo sia San Giovanni le galline furono una compagnia costante. A Zovencedo i bipedi pennuti godevano della massima libertà di scorazzare per la cucina, quindi, mentre si mangiava, le galline razzolavano tranquillamente sotto al tavolo. Una volta è capitato di trovare uno "schito" di gallina proprio dentro ad un bicchiere sulla tavola da pranzo.
A San Giovanni Bepi aveva addomesticato una gallina, quando lo vedeva gli correva sempre incontro e andava ad accoccolarsi sulle sue ginocchia mentre lui la accarezzava.
Anche l’allevamento dei conigli si rivelò una risorsa importante, soprattutto quelli d’angora che servivano per fare la lana con cui filare dei maglioni.
La presenza del gatto risale solo al tempo di Barbarano, soprattutto per le insistenze di Maria che, fin da bambina, ha sempre avuto una particolare predilezione per i piccoli felini.
LE GRAVIDANZE
Clelia racconta che tutte le gravidanze sono state molto difficili. Le nausee erano continue e si prolungavano fino agli ultimi mesi. Molto spesso si sentiva mancare il respiro, tanto è vero che in chiesa doveva sedersi per non svenire. Una volta, uscendo da un negozio, è stata colta da un malore ed è caduta a terra rompendosi la faccia. Questo stato creava un’inquietudine, una smania, un non trovar requie da nessuna parte.
Nell’ultima gravidanza, quella di Antonio, Clelia non riusciva più neppure a salire le scale; Ulisse d’estate, stava su a San Giovanni perché faceva più fresco. Del resto, in quel momento, non c’erano neppure i letti per dormire. Con il suo tradizionale ingegno Ulisse costruì una specie di “letto” con due cavalletti e alcune tavole; appena Clelia tentò di salirvi, tuttavia, crollò miseramente e così dovette rimanere a Barbarano.
I MESTIERI DI ULISSE
Oltre ad essere una persona socialmente molto attiva Ulisse esercitava molti mestieri per mandare avanti la sua numerosa famiglia. Il suo ingegno era proverbiale; per avere più informazioni rinvio ai gustosissimi ricordi riportati da Gianni nei suoi racconti. Qui basti ricordare per inciso alcuni dei mestieri che Ulisse svolgeva regolarmente oltre all’insegnamento.
Ulisse aggiustava di tutto, anche gli ombrelli; lui si occupava della parte in ferro e Clelia doveva rammendare e cucire la parte in stoffa. Era famoso, inoltre, come riparatore di occhiali, riparatore di scarpe, di scatole di tabacco, di orologi; sapeva stagnare di tutto, in particolare i “bocali da piso” (cioè i vasi da notte) e le pignatte; sapeva rilegare i libri come un artista (un mestiere che aveva imparato ai tempi del collegio) e aveva tutti gli attrezzi necessari (il telaio, il torchio, ecc.); ricordo ancora adesso come faceva a preparare la colla con le sue mani.
A Zovencedo Ulisse portò per primo anche il “cinema” (naturalmente quello muto!); aveva comprato il proiettore e lo usava in un’aula della scuola.
Famose rimasero le rappresentazioni teatrali che Ulisse organizzava (sia a Zovencedo sia a San Giovanni) per allietare le serate estive; come teatro si usavano le grotte smesse delle cave di pietra, illuminate da lampade a petrolio. Gli attori erano ragazzotti svegli del paese opportunamente istruiti e preparati dal maestro Zeffiro.
In seguito, a San Giovanni, Ulisse istituì anche il “corso per muratori” e la classe quinta elementare (privatamente).
I colleghi maestri dicevano che Ulisse era il maestro più intelligente della zona; aveva tante iniziative, le curava e si preparava nel suo mestiere con coscienza e dedizione.
Gli ex alunni di Ulisse lo ricordano come un bravissimo maestro; sapeva fare esempi sempre molto concreti, sapeva raccontare e leggere le storie come un attore; sapeva tenere perfettamente la disciplina; raramente dava dei castighi. Le mamme dicevano “ah maestro, lu li immaga i tusi!” (cioè li incanta). Una volta un alunno era talmente preso da quello che il maestro raccontava che scivolò giù dal banco.
Le condizioni del maestro elementare a San Giovanni non erano proprio ideali: Ulisse doveva insegnare a tre classi contemporaneamente, per un totale di circa 40 o 45 bambini (al contrario di oggi, dove per una classe ci sono tre maestre). Riusciva comunque a mantenere la disciplina e a insegnare bene; le famiglie contadine non mostravano pretese nei confronti della scuola e appoggiavano sempre con rispetto e convinzione le scelte educative del maestro.
Anche con i suoi alunni Ulisse era generoso. Durante la guerra, ad un alunno particolarmente povero e bisognoso che doveva andare in un istituto per studiare Ulisse regalò un paio di mutande (notare che ne aveva solo due paia e che così rimaneva solo con le mutande che aveva indosso). La sua generosità talvolta irritava un po’ Clelia perché gli sembrava che lui si privasse del necessario per darlo agli altri. Ma forse Ulisse non aveva esattamente la percezione di cosa fosse necessario per vivere; a lui bastava veramente poco per vivere contento.
I PRETI DI ZOVENCEDO
Ulisse fu sempre un uomo di chiesa molto attivo in parrocchia. Il primo parroco con cui ebbe a che fare fu Don Antonio Tamerlini (siamo nel 1937); i rapporti con Don Antonio furono sempre ottimi, di reciproco rispetto e collaborazione. Ulisse insegnava il canto ai giovani, ai bambini e ai grandi; suonava l’armonio in chiesa e insegnava anche il catechismo. Nel periodo di Natale organizzava il “canto della stela”, tusi e tose si trovavano per cantare girando per le contrade del paese. Inoltre faceva diversi lavori di manutenzione per la chiesa come riparare i banchi e le porte. Un inverno, per riparare la porta principale, quasi si prese un malanno, essendo stato per tante ore a lavorare al freddo.
Nel 1948 arrivò in paese il nuovo parroco, Don Carlo Godi; in quell’anno nacque Agnese, per cui lei fu la prima piccola parrocchiana ad essere battezzata da Don Carlo.
Purtroppo nacquero subito dei piccoli contrasti con il nuovo parroco; il primo motivo di attrito è stato il canto. Don Carlo, appena arrivato, pretese subito di dirigere personalmente il canto e pretese anche che Ulisse gli facesse da assistente subordinato. Questo, a mio padre, non andò giù anche perché lui era effettivamente più preparato e più sensibile musicalmente; quindi, da questo momento, non si occupò più del canto.
Un altro motivo di contrasto fu la casa; Ulisse vi aveva apportato molto migliorie; per esempio vi aveva piantato delle vigne e aveva acquistato dei pali per sostenerle. In una famiglia numerosa si faceva conto di tutto, anche della legna che si poteva ricavare dai pali. Il prete si risentì aspramente quando Ulisse, al momento di trasferire le famiglia, tolse i pali e li portò con sé a San Giovanni.
Comunque questi contrasti furono presto superati; fu Ulisse stesso, per primo, a recarsi in canonica e a chiedere scusa. “Possibile che mi e lu, omini de ciesa, dovemo baruffare?” disse Ulisse in tono conciliante. Don Carlo, da parte sua, perdonò volentieri e i contrasti furono superati.
Ulisse sapeva perdonare e chiedere scusa anche quando non era ben chiara di chi fosse la responsabilità; aveva un grande rispetto per l’autorità costituita e per i superiori.
UN BRUTTO EPISODIO
A Zovencedo viveva un altro maestro (di cui non faremo il nome per motivi di discrezione); insegnava a San Gottardo e, probabilmente, invidiava la posizione in vista e la stima generale di cui godeva Ulisse. Questo “altro maestro” aveva diffuso delle calunnie su Ulisse affermando che corrompeva la gioventù con l’organizzazione di feste (come il canto della stella) o festini nella scuola (si ballava al suono di qualche disco o della radio), che era un libertino con le donne, e profittava della sua posizione nella parrocchia; si arrivò, per questo, a raccogliere delle firme per cacciarlo via dal paese. Era proprio il momento in cui la famiglia Zeffiro aveva deciso di trasferirsi a San Giovanni, per cui Zovencedo venne lasciata senza tanti rimpianti; c’erano in giro ormai troppe chiacchiere e menzogne.
Poi tutto passò; Ulisse non fece polemiche, perdonò e non ricambiò il male ricevuto; piano piano i rapporti con questo maestro ritornarono normali. Con il tempo, le due famiglie ripresero a farsi visita alla domenica e a conversare scherzosamente insieme come se non fosse successo nulla.
Ulisse non rinfacciò mai le lezioni gratuite di musica che aveva dato al maestro per prepararlo agli esami; sono quei casi della vita in cui il bene fatto viene ricambiato con il male; Ulisse disse solo qualche parola in casa, ma non inveì e non scagliò mai nessuna maledizione.
IL TRASFERIMENTO A SAN GIOVANNI
Il motivo che portò la famiglia a trasferirsi a San Giovanni nel settembre del 1952 fu soprattutto la mancanza dello spazio vitale: la casa di Zovencedo era diventata troppo piccola per la famiglia ormai numerosa. A San Giovanni c’erano due grandi stanze da letto in cui si potevano sistemare quattro letti matrimoniali, c’erano i pavimenti in mattonelle di granito (un lusso per quei tempi!). Per legge il maestro poteva abitare gratis nella casa con la sua famiglia; c’era anche una piccola stanza per ospitare un’altra maestra.
In realtà San Giovanni si rivelò una sistemazione ancora più scomoda di quella di Zovencedo.
Non c’era un acquedotto o una fontana; veniva raccolta l’acqua piovana del tetto dentro ad una cisterna; poi, per mandarla in casa, bisognava pomparla con una pompa a mano. I primi tempi l’acqua era passabile perché avevano disposto parecchi sacchi di filtro; poi cominciò a guastarsi e peggiorare sempre di più. D’estate, o comunque nei periodi di siccità, l’acqua scarseggiava e diventava verdastra e maleodorante. Per bere bisognava andare ad attingere l'acqua ad una fontanella nel bosco.
Ad un certo punto non si poteva neppure usare l’acqua per lavare; allora Clelia andava con il cesto del bucato a lavare alla fontana della “Scudelletta” (2 chilometri più a valle).
A questo aggiungiamo che la chiesa era lontana e scomoda, non esistevano negozi, supermercati, banche, discoteche, ecc. ; c’era un’unica corriere al giorno che, d’inverno con la neve, talvolta non passava neanche.
Intanto cominciarono a manifestarsi i sintomi di una penosa malattia nervosa che accompagnerà la vita di Clelia per diversi anni.
L'esaurimento nervoso iniziò poco dopo il trasferimento a San Giovanni; c'erano tanti problemi nuovi, sembravano formare una cappa insopportabile che pesava sulla testa. Clelia aveva allora circa 33 anni.
"Una notte", Clelia racconta, "mi svegliai, mi sentivo morire, avevo i sudori freddi della morte, mi sentivo mancare il respiro, mi misi a sedere sul letto, mi sentivo mancare la vita, mi sembrava di impazzire".
Il giorno Clelia e Ulisse si recarono dal medico di Villaga; ordinò delle punture ma non servirono a niente.
I malori erano frequenti, Clelia si sentiva svenire e mancare il fiato; Ulisse era molto paziente, ripeteva sempre "fai quello che puoi senza affanarti".
Passarono circa tre anni. A volte, scendendo le scale, alla mamma veniva male e si metteva a urlare come una pazza.
Ulisse faceva a Clelia delle punture endovenose, erano pericolose, ma Ulisse non aveva paura.
Clelia attraversava dei momenti di depressione nera; la famiglia era numerosa, mancava tutto, non c'era nulla per preparare da mangiare.
Si recarono dal primario dell'ospedale di San Felice, il dottor Carboniero; questi fece una visita approfondita, misurò i riflessi, fece un elettroencefalogramma; ordinò una medicina.
Per risvegliare l'appetito Clelia fu mandata in montagna a Conco per più di un mese. Una volta andarono a trovarla con tutti i bambini. In questa occasione Piero si smarrì; mamma era molto preoccupata, ma Bepi rispose con filosofia: "ne hai già tanti di bambini, uno più o uno meno non fa molta differenza".
Piano piano l'appetito ritornò, l'esaurimento stava passando.
I disturbi nervosi furono abbastanza frequenti anche in altri membri della famiglia: Maria e Agnese in particolare; alcuni sintomi si sono riscontrati anche in Gianni, Caterina, Lucia e Antonio.
Alcuni dei Zeffiro, ancora oggi, dimostrano un carattere piuttosto nervoso e un indole ipersensibile.