Non era che una piccolissima ghianda, raccolta nei boschi dei Berici, quando insieme l’abbiamo piantata una decina di anni fa. Ed ora la quercia si erge nel nostro giardino, forte e maestosa, sopra tutte le altre piante.
In questi giorni afosi, spesso mi capita di rifugiarmi nel verde e quando le parole affievolendosi perdono di senso, allora emergono i ricordi.
Quella quercia mi fa pensare a lui, lui come una quercia, tanto era forte e tanta la forza che sprigionava tutto il suo essere.
La forza me I’ ha insegnata lui, e I’ ha trasmessa ai nostri figli senza che loro ne siano consapevoli.
Ricordo che fin da piccoli i nostri figli hanno imparato a non “piangiottare” per niente, a non fare i capricci: non ne avevano i motivi, e lui sapeva sempre trovare i tasti giusti, sdrammatizzando, per dare loro gioia e serenità.
Era bello il suo rapporto con i bambini in generale e con i nostri in particolare: li avvolgeva di tenerezza come una chioccia, se ne impossessava, li sbrassolava in continuazione. Ma, un po’ come succede talvolta nel mondo animale, riservava tutte le sue cure all’ultimo cucciolo della covata: lo lavava, gli cambiava il pannolino, voleva dargli sempre lui il biberon, ne ascoltava il respiro, alzandosi magari di notte per coprirlo o solo per osservarlo.
Chissà cosa vedeva nel suo piccolo che dormiva!
Non era mai stanco. Al più piccolo dava tutto se stesso fin quasi a svuotarsi, ma quando nasceva il successivo sembrava disinteressarsi del tanto amore che aveva seminato ed era come girare pagina e iniziare un nuovo capitolo.
Era la scuola della responsabilizzazione e del rispetto, dove il più grande si prendeva cura del più piccolo e più debole.
lsabella è stata fortunata perché è stata l’ultima e un po’ anche perché l’unica femmina e per lei l’infanzia beata è durata più a lungo.
Ricordo con nostalgia che con lei è finito l’incanto del nostro mondo popolato di bambini piccoli: i nostri e quelli del circondano.
È stato il periodo più bello della sua vita.
Amava circondarsi dei figli in ogni momento. Quando erano ormai cresciuti se li portava tutti via con il camper: era allegro e giocava con tutti loro a bocce sulla spiaggia. Faceva lunghe nuotate sfidando il mare e insegnando a tutti a nuotare.
E pensare che quando l’avevo conosciuto non sapeva nuotare! Aveva imparato da me, ma ci teneva a dimostrare a se stesso e agli altri che ben presto mi aveva superato: l’allievo aveva superato il maestro.
Era orgoglioso ed anche un po’ orso. Io mi lamentavo del suo carattere impossibile, ma il trucco per fargli fronte era elementare: zitti tutti e dopo pochissimo tempo la sua ira si sgonfiava e nei momenti di bonaccia, qualche rarissima volta, riconosceva di essere stato “solo un po’ impulsivo».
Nell’intimità sapeva anche essere dolce. Aveva tante attenzioni per me (e per i figli naturalmente!) e non passava occasione più o meno importante senza che mi regalasse qualche fiore. Erano fiori chiassosi, grandi e colorati perché erano quelli che piacevano a lui, in quanto aveva l’animo semplice di un bambino.
Adorava le cose piccole ma vistose, dì fattura complessa, di cui aveva riempito ogni spazio (questo lato fanciullo l’avrebbe poi trasmesso a Carlo).
I vetri di Murano, ad esempio, non finivano mai di stupirlo, e così i piccoli soprammobili, per lo più inutili, che comprava in continuazione, fino ad inondare la casa.
Tra le sue passioni c’erano anche gli orologi e le sveglie: ne aveva tantissimi per il fascino che esercitavano su di lui i ritmi e gli ingranaggi; li aggiustava, li regolava in continuazione al secondo in modo che funzionassero in sincronia (senza peraltro riuscirci), li spargeva 3 o 4 per stanza, fino a farmi impazzire, quando con i minuti contati dovevo ad esempio portare Isabella alla corriera e non sapevo qual era quello regolato sull’ora di Greenwich. Tutto ciò che era legato al mondo della tecnica lo appassionava: l’elettricità, l’idraulica, i motori; capiva il funzionamento di tutte le cose e intanto ci risolveva tutti i problemi pratici:
non ricordo mai, in più di 30 anni di vita in comune, di esserci presi a piedi con la macchina in panne.
Aveva orecchio per i motori, diceva che bisognava ascoltarne il suono; in realtà era solo lui che aveva un orecchio finissimo, anzi aveva un “senso in più” rispetto ai comuni mortali: il dono di arrivare prima di noi a capire le cose.
Aveva il senso del tempo e dello spazio, sviluppati all’ennesima potenza: sapeva dirmi d’intuito l’ora esatta senza guardare l’orologio, non ci perdevamo mai nei paesi e nelle città che attraversavamo a piedi o con il camper.
Annusava l’aria e mi diceva se dovevo prendere o no l’ombrello per uscire. Quando sono capitati i terremoti importanti, lui li aveva sentiti prima. E non sbagliava mai.
Prima che me lo dicessero i medici, prima che avesse le allucinazioni da morfina, ho capito che sarebbe morto presto quando ho visto che il suo orologio biologico interiore era andato in tilt.
Anche rispetto a tanti altri eventi grandi e piccoli della vita, lui aveva questo “sesto senso”. Aveva previsto con largo anticipo (per averne parlato molti mesi prima con una mia amica), molto prima di Di Pietro, la tragedia nazionale di Tangentopoli in cui sarebbe finito in prigione un suo amico e collaboratore ed è stato allora che aveva cominciato a glissare su questo argomento, fingendo di non saperne niente.
Aveva un’onestà di fondo che ad un certo punto gli deve aver fatto rigettare in blocco tutto il sistema e le persone coinvolte.
Era fatto così: non ne voleva parlare più e rimuoveva, come avrebbe fatto anni dopo nel suo rapporto con la malattia.
L’attività lavorativa era però qualcosa di nettamente separato dalla famiglia.
La famiglia, la sua famiglia era sacra: era il luogo in cui si costruivano i valori fondamentali della vita futura dei nostri figli e tutte le sue energie, tutto il suo tempo libero erano per la famiglia, per questi figli di cui apparentemente non era mai soddisfatto; avrebbe voluto sempre di più, non sembrava interessato ai loro successi, ma ricercava nei loro inevitabili insuccessi le motivazioni e l’impegno che magari era mancato alla base.
Se qualcuno avesse avuto il coraggio di esternargli le sue difficoltà, lui non ci avrebbe creduto, per lui nulla era impossibile (diceva: “impossibile è una parola che ho cancellato dal mio vocabolario”), e allora subentravo io a chiarire, a spiegare, a giustificare, e lui si faceva in quattro per aiutarli.
Ecco la sua eredità: una forza di volontà straordinaria, una serietà ed un impegno totali nel portare avanti qualsiasi attività intrapresa.
Quando il camper aveva qualche problema tecnico (e ne ha avuti un’infinità in quanto era una piccola casa vagante), lui stava ore ed ore a studiare il problema, senza mangiare e senza dormire; non riusciva a fare niente altro finché non l’aveva risolto.
Il camper! Quella sua casa che aveva riempito di ogni comfort per noi che potevamo viaggiare e viverci come in un albergo a quattro stelle. E quando a 17-18 anni Emanuele, per primo, se ne era andato in vacanza altrove, com’era naturale che succedesse, lui l’aveva preso come un affronto personale e poi via via quando anche gli altri lo volevano lasciare solo e si rifiutavano di venire in vacanza con noi, lui si era incupito e pensava che quei figli lì non avevano il senso della famiglia, anzi, avevano contribuito a disgregarla, non era possibile fargli capire che si può essere uniti anche stando lontani fisicamente.
Che gioia per lui, qualche anno dopo, quando i figli maggiori ci avevano raggiunti a Tropea con la macchina e, anche se per pochi giorni, la famiglia si era ritrovata unita!
Lui continuava a dare anima e corpo alla famiglia, ma i figli crescevano rincorrendo altri sogni ed altre spiagge e non si accorgevano del malessere che, piano piano, minava la sua solida corazza.
Quell’inverno ‘97-’98 lui era particolarmente debole: era insolitamente pallido e quando andavamo a passeggio si stancava presto. lo pensavo a stanchezza da surmenage e lo rassicuravo dicendo che era normale, che anch’io mi sentivo tanto stanca. In realtà quel colorito grigiastro non mi piaceva e ne avevo parlato con il dr. La Rocca, che gli aveva prescritto una serie di esami.
Poi la laurea di Emanuele il 18 febbraio. Lui stava visibilmente male, Il giorno prima aveva fatto la gastroscopia e 10 giorni dopo ci sarebbe stato il verdetto. Riservato a me soltanto. Quella volta ho pianto disperatamente per 3 giorni di seguito di giorno e di notte. Eravamo sul Garda, sul lungolago e avevo giustificato gli occhi rossi con una fastidiosissima congiuntivite che proprio non voleva andarsene.
Quella volta ho capito che un dolore, se non lo condividi con nessuno, può spezzarti il cuore. Mai in vita mia avevo provato un’angoscia simile, senza possibilità di sfogo e di condivisione.
In seguito al colloquio con il gastroenterologo dr. Farinati e al successivo intervento di gastroresezione totale, le sue speranze erano diventate la mia forza.
Fino all’11 febbraio 2002, quando il dr. Fabris con la consueta glacialità e la scrupolosa professionalità mi aveva comunicato la sua condanna a morte. Anche la data: 6 mesi (e da questo colloquio segreto l’ho sempre preservato).
Lui, invece, contrariamente a tutte le previsioni, avrebbe lottato per un anno e mezzo e per me è stato ogni giorno uno stillicidio di dolore.
Ogni mattino, al risveglio, dopo notti da incubo, mi chiedevo se quello sarebbe stato l’ultimo, se quel giorno si sarebbe sentito male, che cosa in tal caso avremmo fatto. Ogni giorno, negli ultimi mesi e ultime settimane, mi chiedevo se sarei riuscita ad arrivare fino a sera reggendo la giornata. Invece ogni giorno trovavo in lui la forza per arrivare a sera. Lui fingeva di credere nella guarigione e, anche se stava male, ricacciava le sue paure e le sue angosce. Non faceva trapelare nulla fuori di sé e forse per questo istintivamente rifiutava le persone.
Quando dopo tanto dolore e disperazione ha avuto la grazia di morire, e di morire nel modo che tutti conosciamo, accarezzato e circondato da tutta la sua famiglia finalmente riunita come l’aveva sempre voluta, allora su tutti noi che c’eravamo è scesa una dolce commozione, che mai avevamo conosciuto. Siamo stati felici dì averlo accompagnato e di aver convissuto con lui in quei momenti sacri del congedo dalla vita; ci siamo sentiti parte attiva di un mistero spesso raccontato da altri, ma mai vissuto in quel modo, in prima persona. Sono stati «belli e forti” gli ultimi momenti della sua vita, non perché in sé fossero belli, tutt’altro, ma perché ognuno di noi ha avuto la certezza che Qualcuno da lassù stava lavorando perché tutto si compisse nella più perfetta sincronia.
E quando don Romano, dopo avergli tracciato sul palmo della mano sinistra il segno della croce e avergli detto: Va’ ora Gianni, non aver paura di niente e di nessuno, che andrai in Paradiso come un missile”, solo allora ha esalato l’ultimo respiro.
Come si fosse rilassato.
Allora quando don Romano ha intonato l’Eterno Riposo io incredula ho chiesto: «Ma è morto?”. E dire che non me ne ero accorta. Forse pochi di noi se n’erano accorti.
Così vorrei avere la grazia di morire.
E se qualcuno oggi mi chiedesse la ricetta per tanta serenità io risponderei: «il dolore, come la gioia del resto, perde di significato quando non è condiviso”.
Grazie a tutti voi perché ci siete stati nel momento del dolore.
Paola Cenghiaro
Funerale Gianni Zeffiro - anni 58
Sabato 5/7/2003 ore 10
Ap 14,9-16; Gv 19,23-30;20,1-9
Non è difficile prendere la parola oggi; a differenza di certe volte in cui il dramma umano che si vive è talmente grande, oppure di altre volte in cui occorre fare gli equilibrismi per ricordare qualcosa di cristianamente buono della persona che ci lascia, oggi non è difficile prendere la parola, spero solo di usarla bene.
Ci ha convocati Gianni, perché è andato avanti sulla strada, e vuole che ci salutiamo davanti al Signore.
Sono certo (perché me lo ha detto) che non vuole che parli di lui, dei suoi meriti, delle sue virtù; e io vorrei rispettare questa sua volontà. Tuttavia non posso non godere insieme a voi di ciò che ho avuto la grazia di vedere, ovvero del passaggio a miglior vita di un ~ grande credente .
Sì, lo voglio chiamare così oggi Gianni: "un grande credente che ha avuto la grazia di lasciarci da credente; ed è una festa.
Abbiamo letto una beatitudine nella prima lettura: "beati coloro che muoiono nel Signore , e se è vero che nessuno può misurare davvero chi e come possa essere "nel Signore è altrettanto vero che certi segni sono inequivocabili, e la morte di Gianni (che brutto chiamarla così...) si snoda fra due segni, fra due unzioni dei malati: un venerdì sera in cui, con una lucidità e una serietà che ricorderò finché vivrò, ha ricevuto il sacramento alla vigilia delle terapie che tentavano di combattere il riacutizzarsi del male; e dall'altra parte il momento in cui è spirato (uso la parola che Giovanni ha scritto per Gesù: "Spirò ).
Quando ho terminato di amministrargli ancora una volta l'unzione, gli ho detto: "puoi andare in pace Gianni, non avere paura di niente, e di nessuno . È stato allora che ha cessato di respirare, nella pace, senza traumi, tant'è vero che qualcuno dei presenti non se n era
neanche accorto, come chi si lascia andare in un sonno pacifico, sicuro. Gianni è "morto nel Signore , e lo possiamo dire con una convinzione che diventa gioia, perché è stato accontentato, lui, uomo per cui la fede era possesso forte ma non scontato, problematico, su cui discutere e interrogarsi, ma nella quale vivere, prima di tutto.
Qualche giorno fa l'ultima confessione: seria, profonda, vera davanti ad un Signore percepito come buono, eppure serio. D'altra parte la serietà era una sua caratteristica:
scherzava, ma non con le cose grandi della vita cui riservava una considerazione adeguata. Scherzava, ma non quando c'erano in ballo questioni vere, e con 5 figli da far crescere le questioni vere si moltiplicano di giorno in giorno.
Di lui colpiva la capacità di essere anticonformista, di guardare al di là delle mode e delle apparenze, profondità nel conoscere le persone.
E morto nel Signore, sereno, come chi sa che per lui "è tutto compiuto , e può lasciare che il mondo e la vita di cui si è preso cura con fedeltà e impegno vadano avanti, e lui può ritirarsi per proiettarsi in quella vita eterna nella quale ha creduto fermamente.
Noi lo accompagniamo nella fede, dicendo a Paola, Emanuele, Ermanno, Matteo, Isabella, Carlo che Gianni... non l'hanno perso, perché chi muore nel Signore, in realtà, vive nel Signore, e vive per sempre, più vicino e intimo che mai.
L'Eucaristia che celebriamo sia la prova di tutto questo, la testimonianza di un futuro nel quale anche noi, con Gianni, vogliamo credere e sperare: un futuro di gioia, di luce, di vita assieme al Risorto, a Gesù che è qui con noi, venuto ad accogliere Gianni, e a consolare noi.
Se conosceste il mistero immenso del Cielo dove ora vivo
questi orizzonti senza fine
questa luce che tutto investe e penetra,
non piangereste.
Sono ormai assorbito dall'incanto di Dio
nella usa sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo sono così piccole a confronto!
Mi è rimasto l'amore di voi
una tenerezza dilatata
che voi neppure immaginate.
Vivo in una gioia purissima.
Nelle angustie del tempo
pensate a questa casa ove un giorno
saremo riuniti oltre la morte,
dissetati dalla fonte inestinguibile
della gioia dell'amore infinito.
(G. Persico)