STUDIARE: MASCHI O FEMMINE?
Negli anni cinquanta la famiglia era già numerosa e i figli crescevano in fretta; bisognava decidere il loro futuro, soprattutto decidere se mandarli a lavorare o a studiare. Le idee di Ulisse non erano molto lungimiranti: lui pensava che, in una situazione economicamente modesta come la sua, bisognasse far studiare solo i figli maschi, mentre le femmine era meglio mandarle subito a lavorare (anche perché prima o poi si sarebbero sposate e un titolo di studio sarebbe servito a ben poco). Clelia invece la pensava diversamente; riteneva che fosse un’ingiustizia non far studiare le femmine. Ulisse alla fine si persuase, anche sotto la pressione delle idee di un amico maestro che lo esortava a non far distinzioni o preferenze tra i figli.
Bisogna dire che, poter studiare, una volta, era considerato un privilegio per pochi; in genere il titolo di studio garantiva l’accesso a una professione socialmente più riconosciuta ed comicamente più vantaggiosa. Molto raramente i figli dei contadini potevano accedere agli studi superiori (a meno che non frequentassero il seminario); solo i figli dei benestanti potevano avere i mezzi economici per accedere agli studi.
Ulisse non era benestante ma credeva nella scuola come mezzo di promozione sociale, per questo cercò di far studiare tutti i figli.
LA VITA DEL “BISSO” A BARBARANO
I cambiamenti di casa e di paese, almeno inizialmente, peggiorarono sempre la vita della famiglia Zeffiro.
Per far studiare o lavorare i figli ormai era diventato indispensabile trasferirsi a Barbarano; a San Giovanni mancavano i mezzi di trasporto, almeno a Barbarano, pedalando in bicicletta fino a San Pancrazio, si poteva prendere la littorina per Vicenza o per Noventa. Sono stati anni molto difficili.
La famiglia Zeffiro aveva acquistato in Via Marinoni una casa vecchia e abitata già da tre famiglie che pagavano l’affitto; si riuscì ad ottenere solo una stanza al terzo piano che sia da cucina che da camera da letto. Qui, nel 1959, si sistemarono alcuni fratelli (Maria, Teresa, Agnese, Gianni, Gigi) ma era una vita impossibile, in poco spazio i litigi erano continui e violenti. Gianni aveva scritto su tutti i mattoni Nei, Nei, Nei… Gigi lo aveva ricambiato di cuore scrivendo dappertutto Coa, Coa, Coa…Ognuno pensava per sè; per esempio chi arrivava a casa per primo mangiava tutto senza neppure preoccuparsi di lasciarne per chi arrivava ultimo. Ad Agnese, in terza media (aveva solo 12 anni perchè aveva iniziato la prima elementare a 5 anni, come Bepi e Lucia), vennero spesso degli sfinimenti, non riusciva più a stare in piedi perchè non mangiava abbastanza.
Si risparmiava su tutto; per esempio si risparmiava sull'abbonamento della corriera che portava a San Pancrazio e tutti si faceva la strada in bici con qualunque tempo, pioggia, vento, neve, estate o inverno. A volte si tornava a casa fradici e infreddoliti perchè non c'erano neppure i soldi per comprare un ombrello o un impermeabile.
Mancava anche l’essenziale per vivere. Si cucinava su un fornello di fortuna nel pianerottolo delle scale, si lavavano i piatti in un secchio nel “mato” (specie di rubinetto pubblico) della strada. Ci si faceva la doccia a San Giovanni una volta la settimana; si andava e tornava in bicicletta e d’inverno, tornando con la testa bagnata, si attaccava ai capelli in ghiaccio.
Non c’erano neppure i servizi; c’era solo un lurido buco in comune con le altre famiglie, scavato nell’orto dietro casa. Per non fare la spola le famiglie di quella casa usavano un “bocale da piso” che in realtà funzionava anche come “cesso”; tutti i prodotti retrospettivi della famiglia venivano esibiti in bella mostra sul davanzale della finestra.
Al mattino l’operazione di svuotamento del carico notturno era particolarmente delicata; d’inverno, si poteva scivolare con esiti disastrosi; è precisamente quello che capitò una mattina a Maria mentre portava due boccali colmi verso la fogna dell’orto; “ecola, ecola!" furono le parole (pronunciate dalla signora Cazzola) che udì prima di cadere e versare miseramente il contenuto dei boccali nella pubblica strada.
Qualche volta i Zeffiro tentarono di evitare le scale rovesciando direttamente il contenuto del boccale nella pubblica via o sul vigneto dietro casa; ma, si sa, non tutti gradiscono l’aroma delle urine altrui e poi, sulle piante, la pipì faceva lo stesso effetto di un defogliante al napal come in Vietnam.
Altra cosa erano le maestose e signorili movenze della grossa signora Fracasso che, con la massima disinvoltura e noncuranza, riusciva a scendere le scale con quattro boccali colmi (due per mano) come se fosse una parata di Vanda Osiris. Di vergognarsi o di scivolare per terra lei non si sognava neanche lontanamente; tutto sommato in quella casa stava bene così e trovava che non mancasse nessuna comodità.
Quindi, gli inquilini della casa che i Zeffiro avevano regolarmente acquistato, non ne volevano sapere di andarsene. Così, visto che la situazione stava precipitando, con un sforzo economico eccezionale (facendo anche dei debiti) i Zeffiro riuscirono ad acquistare una specie di “casa” nella stessa Via Marinoni, poco lontano dal primo fallimentare acquisto.
Appena trasferiti nella “nuova” casa l’impressione fu allucinante; nel primo periodo si mangiava seduti su della casse da morto (in precedenza la casa era una specie di magazzino della società operaia che gestiva il traffico delle pompe funebri a Barbarano); si pisciava in una fogna a cielo aperto, non c’era nessun tipo di riscaldamento.
Le cose migliorarono quando si costruirono le stanze ai piani superiori; le camere da letto erano abbastanza grandi e ci si poteva stare comodi.
L’ultima stanza in alto era riservata ai maschi: Bepi, Gianni, Gigi e Piero; Clelia ricorda che Gianni, anche d’inverno con qualunque tempo, voleva sempre dormire con la finestra aperta.
Da notare che Ulisse, inizialmente, continuò ad abitare a San Giovanni; lì si trovava benissimo e non voleva saperne di venire ad abitare a Barbarano; “tì va pure” diceva alla Clelia, “ma mi sto ben qua”. Per Clelia fu una brutta bastonata. Ulisse non voleva insegnare a Barbarano perché temeva di aver a che fare con dei bambini viziati (il figlio del dottore, il figlio del farmacista, ecc.) e famiglie esigenti. Solo dopo un paio d’anni Ulisse si rassegnò ad abitare a Barbarano. In questo periodo (nel 1962) cambiò anche impiego; nella scuola elementare di Barbarano il Direttore (Oreste Lobbia) aveva bisogno di un segretario, conoscendo Ulisse come persona intelligente e affidabile lo chiamò e gli diede l’incarico. Ulisse accettò, si era reso conto che un’epoca era finita e che ora, forse, si stava aprendo l’ultimo capitolo della sua vita.
Del resto la situazione educativa stava sfuggendo di mano a mamma Clelia; i figli la sera rimanevano fuori fino a tardi e ormai facevano quello che volevano profittando della latitanza educativa paterna. Clelia racconta che una sera dovette recarsi da una famiglia poco raccomandabile per ordinare a Gianni di tornare a casa. Lo minacciò dicendogli: “se non te torni casa subito vò a piè de note fin a San Giovani e ciamò zò el popà”. A queste parole Gianni tornò a casa. In famiglia c’era ancora timore e soggezione per la figura del padre.
Ulisse, intanto, che pure in questa occasione dimostrò una notevole dose di testardaggine non volendo saperne di venire a Barbarano, finalmente si convinse che era anche suo dovere tornare ad abitare con la sua famiglia ed assumersi le sue responsabilità.
D’estate tutta la famiglia trascorreva le vacanze a San Giovanni, profittando del fatto che la casa del maestro era rimasta a disposizione di Ulisse.
Le estati a San Giovanni erano molto belle; ne ritroviamo qualche immagine nel capitolo dedicato ai ricordi di Antonio. (clicca qui).
LA MITICA ARIEL E LE FAVOLOSE VESPE
A Zovencedo l’unico mezzo di trasporto era la bicicletta; una per Clelia e una per Ulisse. Ma con i figli, dopo la guerra, le biciclette non bastavano più.
I tedeschi, al termine della guerra, abbandonavano spesso nei campi dei mezzi militari di trasporto. Qualcuno ne approfittava e se ne appropriava. Un certo Mario de Genio da Zovencedo indicò ad Ulisse una moto d’occasione, una Ariel 250, per un prezzo veramente vantaggioso. Ulisse la acquistò perché ne aveva bisogno per i frequenti spostamenti. Era una moto di aspetto imponente; sembrava un ippogrifo d’acciaio; noi bambini ne eravamo affascinati e intimoriti. Purtroppo era poco maneggevole e per niente affidabile ; nei tornanti della ripida e sterrata strada di Zovencedo, Ulisse era costretto a scendere dalla sella e portare la moto a mano per non rischiare di cadere. Su questa moto si stava in quattro: un bimbetto seduto davanti sul serbatoio, Ulisse in sella, Clelia seduta nel sedile posteriore, un altro bimbetto incastrato tra Clelia e Ulisse. Più, naturalmente, l’immancabile tascapane sulle spalle della Clelia per portare a casa la spesa.
L’Ariel era amica del demonio perché non partiva mai e induceva sempre Ulisse in tentazione di dire qualche ostrega di troppo. Dopo anni e anni di continui tradimenti e false partenze Ulisse spazientito barattò l’Ariel con una cassa di mele.
A Barbarano si comprò una lambretta 175, motoveicolo nuovo e ben più affidabile del precedente residuato bellico, ma certo molto più prosaico e privo di fascino.
Con la lambretta Ulisse e Clelia facevano lunghi viaggi: per esempio a Cortina, per trovare Bepi e Gianni; poi da Cortina andarono a Conegliano e Castello Preganzuolo per trovare una sorella di Ulisse.
Un altro viaggio memorabile fu a Ravenna e Rimini; al ritorno, siccome era molto tardi, Clelia e Ulisse di fermarono a dormire in una locanda; lì trovarono tante e tante di quelle zanzare (papà li chiamava i “violini di notte”) che dovettero scappare via rabbiosi.
Le vespe hanno rappresentato una tappa importante nei mezzi di trasporto della famiglia Zeffiro: le più significative furono quella di Bepi, di Gianni (comprate nuove) e quella di Gigi (comprata usa). Erano forti, instancabili nei lunghi viaggi, sopportavano benissimo anche le strade sterrate del monte, potevi salire in due o in tre, non si guastavano praticamente mai, consumavano poca miscela: negli anni 50 e 60 sono stati un mito per un’intera generazione.
Ricordo le discese in picchiata nelle sere d’estate, giù per la strada da San Giovanni a Barbarano; per risparmiare benzina talvolta si spegneva il motore e anche il faro, l’aria fresca nelle orecchie, i profumi della notte, le luci nel buio delle case e delle strade in lontananza nella campagna, sono sensazioni indimenticabili.
Per un giovane la vespa era il primo segno dell’indipendenza e della conquistata virilità. Il massimo era avere una ragazza seduta nel sedile posteriore che si stringe forte alle tue spalle. (Sensazione che personalmente non ho mai provato, ma che immaginavo molto bella e intensa).
LE PRIME AUTO
Le auto a San Giovanni negli anni cinquanta erano un’autentica rarità; forse ne passava una al giorno in media. Possedere un’auto era un segno di distinzione sociale; fino agli anni sessanta i Zeffiro non possedettero mai un’auto. Anche a Barbarano le auto erano molto rare; negli anni sessanta si poteva giocare tranquillamente in qualsiasi strada del paese senza aver la minima paura di essere investiti, dato che non passavano mai le automobili.
Il primo della famiglia ad acquistare un auto fu Gianni; era il 1965 e fuori casa, per la prima volta vidi una maestosa 1100 FIAT. L’auto attirò la curiosità di tutti; prima o poi tutti facemmo un giro su quella 1100. Personalmente mi faceva venire tanta nausea e i giri domenicali in montagna (ne ricordo uno in particolare in cui vomitai anche l’anima) si trasformavano spesso in veri e propri incubi.
Dopo la 1100 Gianni cambiò spesso l’auto: ricordo la Giulia 1600 Super (con la quale ebbe un pauroso e quasi mortale incidente), la Giulietta Sprint coupè (di un bel rosso fiammante), l’Alfa 1300 TI, e, in seguito, molte altre.
Altre auto “storiche” della famiglia sono state la FIAT 650 di Gigi; famose sono rimaste le escursioni notturne a San Giovanni, d’inverno con le grandi nevicate; salivamo in cinque sulla Giulia di Gianni e in quattro sulla 650 di Gigi; alla curva della scudelletta la 650 non ce la faceva più a salire perché le ruote slittavano sulla neve, allora ci “struccavamo” in nove nella Giulia di Gianni. Arrivati sotto le scuole elementari di San Giovanni scendevamo e facevamo dei tremendi scontri a palle di neve; quello più “inquerciato” di neve di solito ero io.
ULISSE SEGRETARIO NELLE SCUOLE DI BARBARANO
Ulisse amava l’ordine e la precisione; quando arrivò alla scuole elementari di Barbarano trovò un caos indescrivibile e una montagna di lavoro arretrato. Scrupoloso come era e ligio al dovere, si sobbarcò una mole incredibile di lavoro; passava giornate intere all’addiaccio pur di mandare avanti almeno i lavori più urgenti. Era sempre in tensione e in difficoltà; qualcuno disse che la sua salute peggiorò anche a causa del nuovo lavoro.
Un pomeriggio d’inverno, non potendone più dal freddo (soprattutto nella gamba con la protesi) si accese una stufetta elettrica lasciata in disuso nella scuola. Per questo gesto venne severamente ripreso dal capo degli stradini, ritenendo uno spreco che un segretario si riscaldasse. Ulisse ci rimase molto male ma non protestò e continuò a lavorare alacremente.
Dicono che fosse sempre gentile e disponibile con chiunque gli chiedesse un piacere; persino alla domenica, qualche volta, gli capitava di fare qualche certificato per una maestra se ne aveva un bisogno urgente.
LA MALATTIA DI ULISSE
Nell’estate del 1964 Ulisse notò che aveva sempre tanta sete, una sete eccessiva. Riferì al dottore di questo sintomo e gli chiese se si trattasse di diabete. Il dottore lo rassicurò dicendogli che bere fino a due litri al giorno era nella norma
Una notte Ulisse assaggiò la propria urina (ha sempre avuto un buon stomaco) e quando sentì che era dolciastra, capì subito di cosa si trattava. Al mattino corse dal dottore che gli ordinò di fare delle analisi; dopo le analisi lo ricoverarono immediatamente in ospedale. Infatti i medici si accorsero che il diabete c’era ed aveva raggiunto i valori massimi.
Ulisse venne sottoposto per anni ad una dieta severa (niente pasta, pane, ecc.) che lo prostrò fisicamente: era costretto a mangiare pochissimo e aveva sempre tanta fame. Spesso aggiungeva acqua alla minestrina slavata per avere l’illusione di mangiare qualcosa di più.
Ogni giorno si praticava da solo le iniezioni di insulina che servivano per tener sotto controllo la malattia; comunque stava fisicamente deperendo.
Ulisse morì d’infarto all’ospedale di Vicenza il 17 ottobre 1968; l’infarto fu causato da una insufficienza alle arterie coronariche, probabilmente una conseguenza e una complicazione del diabete.
CONCLUSIONI
Dopo la morte di Ulisse la famiglia iniziò un lento e naturale processo di divisione: molti fratelli e sorelle si sposarono, fecero una propria famiglia iniziò un lento e naturale processo di divisione: molti fratelli e sorelle si sposarono, fecero una propria famiglia e costruirono nuove storie.
La storia dei Zeffiro quindi non finisce qui ma continua nei figli e nei nipoti che, nel proprio patrimonio genetico, nel proprio carattere e nella propria identità conservano sicuramente tracce dei propri antenati.
Vi ho raccontato questa storia perchè cerchiate qualcosa di voi stessi nel passato della vostra famiglia e perchè vi rendiate conto delle grandi trasformazioni sociali accadute nel giro di cinquanta anni, trasformazioni così profonde che mai si sono verificate nella storia dell'uomo e che un'intera generazione ha dovuto assimilare rapidamente e talvolta drammaticamente.
Resta, nell'insieme, un esempio di umanità che ha cercato di orientarsi nella vita fidando anche nel disegno della Provvidenza divina che tutti vuole condurre verso la vita vera senza fine. (Amen)