*Il primo Zeffiro di cui si conserva la memoria è Mariano Zeffiro, padre di Ulisse Zeffiro e di altri otto fratelli (5 femmine e 4 maschi).
Mariano nasce nel 1880, non sappiamo i nomi dei suoi genitori perché Mariano è stato trovato in un "luogo pio". L'origine del cognome "Zeffiro" (in realtà Zaffiro), deriva dalla pia consuetudine di dare ai trovatelli un cognome di fantasia ispirandosi al nome di pietre preziose (Rubino, Smeraldo, Zaffiro, Diamante, ecc.), quasi a riscattare il disonore di essere senza un padre e una madre disposti a riconoscere un figlio.
Non abbiamo notizie sull'infanzia e la giovinezza di Mariano; verosimilmente possiamo presumere che siano stati periodi difficili, vista la congiuntura storica (primi anni del Regno d'Italia) e vista la mancanza di affetto che i bimbi allevati in Istituto generalmente subivano.
Possiamo immaginare che Mariano, una volta uscito dall'Istituto all'età in cui poteva lavorare, abbia trovato impiego come stradino, mestiere che esercitò insieme alla coltivazione di quattro campi come fittavolo. Poi fece la guardia giurata. Si sposò inizialmente con Maria Cozza (di cui non abbiamo foto), dalla quale ebbe un solo figlio, Ulisse, nato nel 1905. Maria morì di tifo, quando Ulisse aveva quattro mesi; la malattia del tifo a quel tempo era molto diffusa, sia per le precarie condizioni igieniche, sia per lo scarso tenore di vita. Ad Ulisse hanno riferito che la madre, durante l'allattamento, aveva i seni duri come il marmo. Possiamo dedurre una morte dolorosa, ma forse la scorza di quel tempo era abbastanza abituata a confrontarsi con la morte di giovani mamme e bambini neonati.
Circa tre anni dopo Mariano si risposò con Aurelia Carli dalla quale ebbe, in seguito, otto figli (3 maschi e 5 femmine).
Ulisse raccontava che Mariano era un padre molto duro e autoritario (come del resto si usava a quel tempo); aveva un temperamento irascibile e non ammetteva di essere contraddetto. Un piccolo episodio può aiutarci a capire alcuni tratti del suo carattere: una volta gli era capitato che la mula si era bloccata in mezzo alla strada e non voleva più saperne di andare avanti. Dopo aver frustato e imprecato contro la bestia, visto che non otteneva nulla, le ha dato un potente morso all'orecchio quasi da staccarglielo.
Giuseppe Gaspari Marina Gaspari
I NONNI DEI GASPARI
La nonna materna di Clelia si chiamava Caterina Barugola; Clelia la ricorda coma la "nona in caregoto", perché colpita da paralisi; morì tra i 60 e i 70 anni. Il nonno materno si chiamava Candido Gaspari; viene ricordato per aver vinto la scommessa di mangiare 30 pezzi di zucca tutti in una sera (il buon appetito è stato sempre una caratteristica dei Gaspari). Inoltre portava uno spago intorno al collo con attaccato un crocifisso; dicono che una volta si era "ingambarato" ed aveva corso il rischio di impiccarsi proprio in questo spago.
La nonna paterna si chiamava Caterina Naletto; era una vecchina gentile, Clelia la ricorda perchè la portava sempre alle funzioni caricandola sopra alla "gobba". Buona e caritatevole, non ha mai avuto contrasti con il marito, nonostante si dicesse che lui la tradisse.
Clelia, però, ricorda un trauma infantile in occasione di un forte uragano; la casa dove vivevano era decrepita, e a quel tempo non era raro che qualche casa crollasse a causa del vento forte e della tempesta. Il vento soffiava così forte che le tegole venivano spostate e cadevano quà e là in giro per il cortile. Le finestre erano aperte perchè stavano facendo dei lavori di ampliamento. Nonna Caterina si mise ad urlare e a portare in salvo tutti i piccoli nella caneva (cioè nella cantina). L'impressione di questa scena urlante resterà indelebile per tutta la vita di Clelia che ancora oggi è spaventata dai forti temporali.
Alessandro Gaspari, nonno paterno, era una persona tranquilla ed equilibrata, un contadino che lavorava serenamente i campi. Di lui si ricorda la morte tragica avvenuta per suicidio, all'età di circa 60 anni. Alessandro non riusciva a trovar pace dopo la morte del figlio Giuseppe, caduto da un ponte all'età di 27 anni.
Da tempo Alessandro era sempre più taciturno e pensieroso; qualcuno lo aveva visto con una corda (una "soga") tra le mani...
Clelia ricorda ancora il giorno in cui tutti correvano gridando alla fontana del paese; avevano tirato fuori e disteso sull'erba Alessandro, che si era annegato in meno di un metro d'acqua legandosi al collo una fune con una grossa pietra.
ABITAZIONI A ZOVENCEDO
La prima casa dove Clelia nacque si trovava in via Bellotti (dove attualmente viene lo zio Marsilio a passare le vacanze durante l’estate); quando la mamma Marina si risposò (Clelia aveva circa 7 anni), la famiglia si trasferì in contrada “da Silo”, nella zona più alta di Zovencedo, un posto molto bello dove Clelia, ancor oggi, talvolta sogna di tornare.
Quando Clelia ebbe 15 anni la famiglia tornò ad abitare nella prima casa alle Piane in Via Bellotti.
I GENITORI DI CLELIA
Il papà di Clelia si chiamava Giuseppe Gaspari ed è stato un personaggio piuttosto controverso: alcuni dicevano che era un pò matto, altri sostenevano che era un "dritto", cioè un furbastro che si fingeva "tocco" per evitare il servizio militare (pare che abbia più volte minacciato di buttarsi dalla finestra, che sia scappato nei boschi urlando, che cantasse a squarciagola per le strade del paese, ecc. ecc.). Clelia ricorda solo che era un papà allegro e affettuoso, quando tornava dal lavoro alla sera la prendeva in braccio e la sollevava in alto per farla ridere e giocare.
La fine di Giuseppe (nel 1924) è stata tragica e prematura: all'età di ventisette anni aveva appena imparato ad andare in bicicletta; un giorno appoggiò un piede sul parapetto di un ponte (a Pederiva di Grancona) e cadde malamente spezzandosi la schiena. Inutile il trasporto all'ospedale di Lonigo dove, prima di morire, urlò per tre giorni facendo rintronare tutti gli stanzoni e i corridoi.
Clelia aveva tre anni, Marsilio, suo fratello, aveva un mese di vita.
La mamma di Clelia si chiamava Marina Gaspari. Era una bella donna dalla corporatura alta e robusta. . Era affetta da epilessia; Clelia ricorda con spavento che talvolta, la notte, sentiva un urlo e poi una botta come una bomba sul pavimento di legno dove la mamma cadeva con la schiuma alla bocca, colpita dall'attacco di epilessia, . Per lei, bambina, era sempre un trauma. Una volta Marina era in casa accanto al focolare, mentre stava friggendo del grasso nella padella (la "farsora"); l'attacco di epilessia la fece cadere con la faccia riversa sulle braci; la piccola Aurelia scappò fuori casa e andò a chiamare una sua amica che abitava lì vicino; non c'erano adulti perchè tutti si erano recati a messa. L'amica di Aurelia, anche lei una bambina, ebbe la forza di tirare fuori Marina dal fuoco quando già i capelli erano in fiamme. Le ustioni furono tremende, le deturparono il viso dove rimase un foro e per settimane e settimane doveva medicarsi le piaghe che continuavano a suppurare. Ogni giorno dovevano toglierle delle croste giallastre dalle piaghe che provocavano un dolore tremendo, ma lei non si lamentò mai.
Marina aveva 29 anni quando è morto suo marito Giuseppe. A quei tempi era difficilissimo per una donna mandare avanti una famiglia, per cui, dopo quattro anni dalla morte del marito, si risposò con Fiorindo Gaspari. Questi era suo cognato, in quanto aveva sposato una sorella di Giuseppe di nome Aurelia, rimasta nella memoria per la sua pazienza; non sgridava mai Fiorindo, neppure quando beveva. Purtroppo Aurelia morì in una disgrazia: era seduta su un carro (la "barela"), improvvisamente urtò con la testa su un ramo di fico e cadde all'indietro rompendosi il "filo della schiena" (il cervelletto)..
Il papà adottivo (non mi piace usare la parola "patrigno") di Clelia, Fiorindo Gaspari, trasportava "la pria", cioè la pietra che a quei tempi estraevano dalle cave sparse un pò ovunque nei colli Berici. Insieme allo zio, su un carro trainato da due buoi, partiva dalla "priara delle Fade" (cioè cava delle Fate, così detta perchè sembrava un posto fatato), portava le grosse "prie" fino a Nanto o anche fino all'Olmo. Partivano di notte col buio, attraversavano sentieri stretti e scoscesi in mezzo ai boschi; era un mestiere estremamente duro e pericoloso. Nelle salite più dure bisognava attaccare altri due buoi, ma spesso le povere bestie non ce la facevano più e stramazzavano esauste al suolo. Allora bisognava "incoraggiarle" a bastonate oppure semplicemente aiutarle fisicamente a rialzarsi. Questo lavoro spesso si faceva in diverse compagnie (tre o quattro gruppi per volta); le prie si caricavano al "Gazo". Clelia andava fino al Gazo per portare da mangiare al fratello di una sua amica.
A Fiorindo piaceva bere; si dice che abbia bevuto tanto vino da poter azionare un mulino per una settimana. Partiva la domenica pomeriggio per recarsi alle funzioni; tornava dalle funzioni il lunedì mattina, dopo un lungo pellegrinaggio nelle varie osterie della zona. Questo vizio, comunque, non comprometteva il lavoro; aveva campi di sua proprietà, quindi poteva dare al lavoro e al tempo i suoi ritmi tranquilli. Quando non completava un lavoro chiamava "ad opere" altri lavoratori (spesso zii o altri parenti) per falciare il grano, zappare il sorgo, oppure vendemmiare, ecc. Dei guadagni restava ben poco perchè Fiorindo se li beveva; la vita era dura. Marina però aveva una pazienza serafica; non litigava mai, quando tornava di notte gli levava gli scarponi, lo metteva a letto e non ribatteva al fiume di parole e parole di cui Fiorindo era particolarmente prodigo quando aveva bevuto; lo lasciava parlare e parlare finché il sonno non se lo prendeva. Una volta persino le vomitò sui capelli ma lei non disse nulla. Oltre a Fiorindo, Marina doveva accudire la suocera che, quasi demente, continuava a farsela addosso, a vomitare, ecc. ecc. Donne d'altri tempi abituate a una vita di pazienza e sacrificio personale fino all'annientamento.
Marina Gaspari, la mamma di Clelia, morì all'età di 50 anni a causa di un'infezione di tetano. Tutto iniziò con un semplice taglio nel piede provocato da una stoppia di granoturco, vicino al letamaio; la ferità si infettò e nel giro di pochi giorni il tetano si manifestò con terribili sofferenze. Marina sentiva un forte mal di gambe; Il dottore, inizialmente, non capì di cosa si trattava; " sarà la menopausa" sentenziò. Il male progrediva, dopo due giorni Marina non riusciva neppure a salire le scale per coricarsi a letto. La malattia, dopo due giorni, provocò il blocco e lo spasimo di tutti i muscoli, anche di quelli della bocca. Clelia era già sposata (siamo intorno al 1943) e aspettava il quarto figlio (Gianni); la morte della madre fu un colpo durissimo. Quel giorno tentarono di portare la mamma all'ospedale di Lonigo; per strada incontrarono Clelia e le dissero: "tua mamma ha passato una brutta notte; non salutarla, sennò si impressiona"; dopo qualche chilometro Marina spirò per strada. Quando Clelia vide tornare il carretto con le persone silenziose, scoppiò in un grido "la s'è morta! la s'è morta!", ma qualcuno scese dal carro e le fece cenno di tacere "non dire niente a nessuno, qui siamo fuori comune e non possiamo trasportare morti". Era il giorno in cui Ulisse si era recato a Vicenza per comprare i mattoni necessari al pavimento della cucina.
Quando il carretto arrivò a casa, Clelia sentì da lontano i lamenti delle sue sorelle che piangevano quella mamma mite e buona che tanto del bene aveva fatto alla sua famiglia.
Clelia non ricorda mai di aver sentito la sua mamma alzare la voce o alzare una mano per darle uno schiaffo.
Marina e Giuseppe furono sepolti nel cimitero vicino alla chiesa di Zovencedo; il cimitero poi è stato spostato fuori paese ed ora è rimasto solo un piccolo parco dove riposano in maniera anonima tante ossa di persone di cui quasi nessuno conserva più la memoria.