Parlare di Zovencedo significa parlare di una paese isolato, fuori dal tempo e dalla storia; i ritmi della vita qui sono rimasti immutati per secoli e secoli. Molti aspetti della vita del novecento, a Zovencedo, non sono diversi da quelli dell'ottocento, del settecento, forse del medioevo.Si viveva per lavorare i campi, si lavorava i campi per vivere. Quindi, per capire come scorreva il tempo della vita, iniziamo a parlare proprio del lavoro dei campi.
“Il tempo di arare”
A Zovencedo non esistevano i trattori (i primi arrivarono solo verso la fine degli anni cinquanta), quindi per arare si usavano i buoi; nessuno aveva mai neppure sentito nominare la possibilità di usare delle macchine per lavorare i campi; gli unici attrezzi erano le braccia degli uomini e le spalle degli animali. Le arature, come si può immaginare, non potevano certo essere profonde, tanto più che molta parte del terreno era sassoso; l’aiuto di due o quattro buoi era indispensabile, ma non bastava, dato che occorreva un uomo per spingere a fondo l’aratro nel terreno e un uomo davanti per guidare e tirare i buoi per la cavezza.
Uomini e bestie, alla sera erano sfiniti.
“Il tempo dei cavalieri”
In Primavera, ai primi di maggio, andavamo a Brendola a prendere i “cavalieri”, cioè i bachi da seta. C’era un uomo che li vendeva a peso (un’oncia, mezza oncia o un quarto di oncia): erano allo stato di piccole larve.
Li portavamo a casa dentro ad un cestino, stesi sopra una carta. Vivevano con noi, in casa, per non prendere freddo; anche in maggio potevano capitare delle burrasche letali per i delicati bachi.
I cavalieri erano noti per la loro insaziabile voracità: la prima cosa da fare, infatti, era nutrirli continuamente con le foglie di “moraro” (cioè gelso) che venivano tagliuzzate finemente, tre volte al giorno, così da renderne più facile la masticazione.
Seguiva il periodo in cui i cavalieri “muavano” (cioè mutavano); stavano un giorno o due senza mangiare. Poi riprendevano a mangiare; quando erano abbastanza cresciuti, venivano suddivisi e distribuiti su delle bacchette che formavano come delle piccole fascine (“fasinele”); a questo punto,
finalmente, iniziavano a fare la “galletta”, cioè il bozzolo. Quando il bozzolo era maturo (verso la fine di giugno), lo staccavamo dalla fascina e lo mettevamo nei sacchi. Poi lo vendevamo ai mercanti che lo portavano alle filande; qui i bozzoli venivano sottoposti al calore del vapore (per far morire il baco), poi si cercava il capo del filo in modo da svolgere ordinatamente il bozzolo e ricavare la seta.
“Il tempo delle sarese”
Le ciliegie, come i bisi (piselli) erano una risorsa importante per l’economia agricola di Zovencedo; la pianta del ciliegio era bella e generosa, non aveva bisogno di potature né di trattamenti antiparassitari; praticamente non si ammalava mai.
La raccolta iniziava in maggio: era un lavoro abbastanza faticoso stare tutto il giorno sulla cime degli alberi in equilibrio per riempire i secchi di ciliegie. Zia Aurelia una volta disse “ormai, a forza de star qua sora, a gò la mona larga come na ombrela!”.
Anche le ciliegie si vendevano ai mercanti di passaggio; certi anni il mercante faceva dei prezzi veramente vergognosi; immaginate la delusione di chi aveva lavorato per giorni e giorni quasi inutilmente. Una volta, raccontano le zie, la rabbia è stata così grande che i contadini hanno rovesciato i secchi di ciliegie in strada e le hanno tutte calpestate con gli zoccoli perché nessuno potesse raccoglierle.
“Il tempo del frumento”
Alla fine di giugno, o ai primi di luglio, era tempo di tagliare il frumento, un lavoro fatto interamente a mano, in grande squadre di uomini e donne. Era, come la vendemmia, un momento di solidarietà e aiuto tra parenti o tra vicini; difficilmente un uomo da solo avrebbe potuto svolgere tutto il lavoro, ecco perché era importante avere una bella famiglia allargata o comunque dei vicini su cui poter contare.
Il frumento veniva poi steso sull’aia e battuto con delle cinghie di cuoio per separare i chicchi dalla spiga (come nel medioevo). A dire il vero, nella famiglia di Clelia, c’era una trebbiatrice; quando Clelia è diventata più grandicella, però, la macchina è stata venduta.
Il frumento serviva per fare il pane; solo quello in più veniva venduto. I sacchi di grano venivano portati dal “munaro” a Calto; dopo la macina bisognava “burattare” il frumento, cioè separare la crusca dalla farina bianca. Questo lavoro veniva fatto da una macchina che doveva essere azionata a mano (tramite una manovella).
Poi portavamo la farina e i “spinarui” (fascine di legna fina ottenuta dai rovi, dai cespugli e dai rametti secchi caduti nel bosco) dal fornaio perché facesse il pane.
Prima che Marina, (la mamma di Clelia) si sposasse per la seconda volta, in casa facevamo il pane per noi e anche per gli altri; avevamo un forno a due passi da casa, impastavamo la farina con l’acqua, il sale e il lievito in una grande “mesa” ” (specie di tavola con i bordi rialzati),
e poi mettevamo il pane a cuocere. D’inverno si andava in stalla a fare il pane perché, con il tepore della stanza, lievitasse meglio.
“Il tempo del canevo”
Il canevo (cioè la canapa) si seminava in primavera, nello stesso periodo del lino. Anche questa cultura era abbastanza diffusa, erano belle le rivette fiorite di fiorellini bianchi; poi spuntavano dei semini (i famosi semi di lino) che per noi erano anche buoni da mangiare; nel tempo, si perdette l’usanza e questa coltura scomparve da Zovencedo.
Il canevo si raccoglieva nei primi giorni di agosto; bisognava strappare il fusto della pianta (alto più di un uomo) e fare dei mazzetti, che poi si legavano e si portavano a casa, si lasciavano al sole e quando erano secchi si sbattevano via le foglie, dividendo il maschio dalla femmina. Poi si legavano gli steli in un gran fascio , lo si piegava stando seduti su una sedia; gli steli del maschio da una parte, quelli della femmina dall’altra. La femmina faceva i semi e impiegava meno tempo a seccarsi, il maschio aveva tante foglie e impiegava più tempo a seccarsi.
Quando i fasci erano pronti, si partiva insieme anche ad altre famiglie per bagnare i fasci nelle acque del lago di Fimon (circa 12 chilometri a piedi); il fascio doveva restare immerso completamente nell’acqua per almeno dieci giorni. Dopo si raccoglievano i fasci e bisognava lavarli e sbatterli finché non diventavano perfettamente bianchi; poi si disponevano a capanna, al mattino presto, perché si asciugassero e prima di sera potessero essere riportati a casa.
A Zovencedo il canevo veniva di nuovo rimesso al sole perché si seccasse perfettamente, poi lo “gramolavamo”; per “gramolare” c’era un cavalletto con quattro gambe, una tavola lunga e stretta con una fessura in mezzo e una lama sotto; sopra c’era un’altra tavola lunga e stretta con una maniglia che si poteva abbassare e alzare; con questa operazione si tagliuzzava tutto il canevo, restava su solo il “teio” (cioè la parte filosa). Si mettevano da parte i fili di canevo, si facevano dei bei fagotti e si portavano a “chijarlo”. La chija era un blocco di ferro tutto a puntine; si prendevano i fagotti di filo, si buttavano sopra al ferro e poi tirava finché i fili più lunghi non uscivano ben stirati e ordinati. I fili più corti rimanenti servivano per fare la stoppa.
I lenzuoli si facevano con la stoppa e il canevo: la stoppa serviva per l’orditura e il canevo veniva utilizzato per la trama. A Zovencedo c’erano due telai, lì si portavano i gemmi di canevo e stoppa per tessere le lenzuola; era un’arte filare il canevo e confezionare le lenzuola.
Le lenzuola servivano esclusivamente alla famiglia, nessuno aveva mai pensato di vendere il canevo o tanto meno le lenzuola; stentiamo a renderci conto di quanto fosse complicato avere in casa delle lenzuola; pensate quante operazioni occorrevano dalla semina della canapa alla tessitura! Non era più semplice comprarli al supermercato?
Quando Marina si era risposata in casa soldi non ce n’erano; la nonna, per aggiustare le braghe, prendeva un filo di canevo, lo “tingeva” nella caligine e nel grasso della “farsora” (padella), lo infilava nell’ago e con quello cuciva.
“Caffè col bachetelo”
Si faceva bollire l’acqua in un piccolo pentolino, poi si aggiungeva una polvere ricavata dal frumento o dall’orzo, si mescolava, poi si aggiungeva un po’ di zucchero e si intingeva un po’ di pane: ecco fatto il “caffè”! Clelia racconta che sapeva semplicemente da acqua colorata.
“Il tempo del sorgo”
In settembre era il momento di tagliare il sorgo; già a giugno il sorgo aveva richiesto molto lavoro con la zappatura, che serviva per smuovere la crosta del terreno e togliere le erbacce.
“Il tempo della vendemmia”
Avevamo parecchia uva da vendemmiare, quindi, come per il frumento, avevamo bisogno dell’aiuto dei parenti e dei vicini. Si andava con la “barela” (carretto senza sponde) e con i “bo’” (i buoi); sopra la barela c’erano dei vedoli o masteli (mastelle per la raccolta dell’uva). Allo zio Fiori il vino piaceva tanto, per cui tutto il prodotto della famiglia serviva solo per i consumi interni; nessuno si sarebbe mai sognato di vendere il vino!