Un po’ più doloroso fu quella volta che Gianni, che teneva in braccio una delle sorelle più piccole, la mise a sedere sulla stufa credendola spenta. Si accorse del suo errore di valutazione dagli strilli disumani e dallo stampo dei cerchi della stufa sul sedere nudo della malcapitata di turno.
L’ultimo episodio si riferisce invece ad un intervento di alta chirurgia praticato dalla mamma: un grosso “cioato”
(foruncolo purulento per gli illetterati del dialetto) sul sedere che già ne aveva provate tante. Immaginate l’ambiente sterile e gli strumenti chirurgici di allora…., ma la determinazione della mamm e la sua abilità e diciamo pure la sua fortuna, ancora una volta curarono e portarono alla guarigione il culetto di turno sulla cui pelle non restò neppure una traccia.
(Paola)
Caldo pomeriggio, giugno 1962, Barbarano.
Ricordate la mania della mamma di fare pisciare i bambini sul pavimento? Ed ecco che prende l’Antonio nella mitica posizione di tiro e psssssss…...ma stavolta il caldo flusso del fratellino è andato a finire dentro la credenza, dove c’era una bella focaccia…..che poi voi tutti, all’insaputa di ciò che era accaduto, ve la siete mangiata!!! Piccoli segreti da non svelare al momento. (Ora che lo sapete potete dire: meglio tardi che mai!).
Altro ricordo. Una festa a Zovencedo: allora tutti partono, chi a piedi, chi in bicicletta, chi, più privilegiato, in moto con papà; io andai in monopattino, ricordate, quello di legno che aveva fatto il papà e avevo un paio di pantaloni lunghi, udite: NUOVI!!!
Naturalmente in discesa bisognava frenare, ma come? Con il tallone del piede sulla ruota posteriore, naturalmente. Arrivato dalla zia Maria, dove il gruppo era già al completo, la mamma mi vede, ahimè, da dietro: orrore! Le braghe erano completamente bucate! Per effetto delle frenate; potete immaginare la reazione entusiasta della mamma: Tunf! Tunf! Tunf! E ancora Tunf! Tunf! Tunf!
E chi si ricorda la sera in cui, durante il rosario, Gigi mi continuava a cojonare: Kyrie eleison, e lui: pieto, Kriste eleison, pieto, Santa Maria Mater Dei, pieto,
Tasi nei, pieto, finchè il papà, in un suo raro raptus di quella furia che credo tutti noi temevamo, ahimè, l’ha letteralmente dilaniato, sbranato vivo: quattro novissimimortegiudizioinfernopurgatorioparadisonelnomedelpadredelfiodispritosantosusisia……..
(Piero)
Primi anni sessanta.
Me ricordo che d’istà andavimo tutti a San Giovani, in tele scole, par stare un po’ al fresco, che a Barbaran no se respirava gnanca dal caldo.
La matina iera tuto un cantare de oseli; par me opà Ulisse la iera na disperazion, parchè, a furia de schiti e pene e paie, i osei stropava le gorne e co pioveva l’acqua fasea malani sui muri dea casa. Ma pal gato, che gaveimo portà su da Barbaran dentro no scatolon de carton, la iera na pacchia. Nol so come se rampegava su pal teto e là se faseva ogni dì de le gran magnade. A dire el vero, la prima volta che lo ghemo porta su a San Giovani, el gliera scapà indrio a Barbaran. Ma quando el se gà inacorto che el teto de le scole el iera el paradiso dei gati, el ghe stà volentieri. Anzi, cosa se stà ora de portarlo indrio a Barbaran, in setembre, nol volea pì tornar casa. Lo ghemo ciapà e con quattro baretoni lo ghemo inscatolà nel carton. Dopo un puchi de giorni, le spario e le tornà da novo a San Giovani. Dove chel sia, nò se ga pi savesto.
Podarsi in tel bosco; anca là ghe iera tanti oseli; zerti gaveva anca do gambe e do man e i portava vestiti da tosateli e tosatele; drio le scole ghe iera le sinque piante, ognuna portava el nome de quelo che iera el so paron: la Gnese, la Paolo, Piero, la Cia e la Katy. Ma pi bela de tute iera la pianta grande, vizin al tirapele; me pareva chea tocase el cielo; me fradei se rampegava su come gati; na volta i ga prova a tirarme su anca mi fin in alto, ma mi frignavo e quasi me cagavo doso dala paura.
No, no, par mi andava ben le piante in corte dela scola, dove che zugavimo e dove chel popà el gaveva fato anca un’altalena.
In corte ghe iera anche do cisterne fonde fonde, che na volta le ciapava l’acqua dal teto co piovea e i me dise che doveimo rangiarse con quela anca quando che la iera verde e vecia. Ma Piero, el me gavea dito che in fondo a quele cisterne ghe gera i diamanti e bastava solo calarse so par la scaleta de fero par trovarli. Mi sognavo de andar so na volta o l’altra, ma ga vevo nà fifa boia; ogni tanto alsavo el quercio, spionavo dentro, ma dopo taiavo la corda. Anca parchè ghe iera un mucio de mistieri da fare: cusinare i coleotteri dentro le scatolete de ton con un poca de acqua, fare il mosto strucando i fiori dei papaveri, ciapara i girini dentro la priara e meterli in tel bandon, farghe el funerale e la tomba ai corgnoli che ciapavimo in orto, fare le trombe coi maneghi dele zucare, rampegarse su pai costoli, i sasi sora la priara dove che ghe iera anca un posto par sentarse che ghe ghe ciamavimo el trono del re.
In tele sere d’istà, dele volte, partivimo tuti, fradeli e sorele e morosi, e ndavimo cantando fin all’osteria de Toni Gaitanelo; e là, co ghe iera serate particolari, qualche volta beveimo un bicier de spuma, senta intorno a un tavolin de fora, co tante gente intorno che bevea e sugava a carte. Co nisuni me vedea, mi scapavo drio a l’osteria, do chei butava le scuaze, e la catavo i me tesori, me
impienavo le scasele de tapi a corona, casa ormai ghi naveo na secia, ma noi me pareva mai masa.
Co tornavimo indrio, el moroso dea Maria el se scondeva in qualche macion del bosco e, taca al buso de la stria, el saltava fora osando come un lupo par farme paura. Ma mi el me mestiero de mocolo lo fasevo sempre con cosiensa, frignavo na scianta, ma dopo restavo dove che iero
De le altre sere stavimo tuti in corte; me opà Ulisse el gavea fato un tavolin de marmo co na gamba unica fata da un bidon belo grande; el gavea tirà anca na lampadina che fasea un poca de luce; rivava Polaton co la so lambreta, zugaimo a carte, ciacolavimo e ridevimo; dele volte metivimo le angurie americane comprà da Ico a Ponte, dentro la priara, in te l’acqua in fresca, e la iera na festa co ne tocava na fetela. Mal momento pì belo meo ricordo chea sera che Giani, con un filo, el ga fato n’dare el so giradischi, coe canson de Celentano e co Fischia quele non le dismentegherò mai. Però anca la Dona immobile la iera belà. Co iera na serta ora, bisognava andare il leto; dele sere i me asava el balcon verto e l’ora spetavo che pasasse na machina (capitava na volta o do la setimana); i fanali, da distante, i fasea come el cinema sul muro; dopo se sentiva solo el cri cri dei grili. E pensando ala storia dela mosca mora, chi sta dentro e chi sta fora, me indormesavo.
(Antonio)
Mi ricordo che d'estate andavamo tutti a San Giovanni, nelle scuole, per stare un po' al fresco, perché a Barbarano non si respirava dal caldo.
La mattina era tutto un cantare di uccelli, per mio papà Ulisse era una disperazione, perché, a furia di escrementi, penne e paglia, gli uccellini intasavano le grondaie e quando pioveva l'acqua rovinava i muri della casa.
Ma per il gatto, che avevamo portato su da Barbarano dentro uno scatolone di cartone, era una festa. non so come riusciva ad arrampicarsi su per il tetto, ma so di certo che là si faceva delle grandi mangiate. A dire il vero, la prima volta che l'avevamo portato su a San Giovanni, era scappato per tornare a Barbarano. Ma quando si è accorto che il tetto delle scuole era il paradiso dei gatti, è rimasto là molto volentieri. Anzi, quando è stato il momento di riportarlo a Barbarano, in settembre, non voleva più tornare a casa. lo abbiamo catturato e inscatolato nel cartone, però, dopo un po' di giorni, è sparito ed è tornato di nuovo a San Giovanni. Dove sia finito, non lo abbiamo mai saputo.
Può darsi sia finito nel bosco. anche là c'erano tanti uccellini, certi avevano due gambe e due mani e portavano vestiti da bambini e da bambine; dietro le scuole c'erano le cinque piante, ognuno portava il nome di quello che era il suo padrone: la pianta della Agnese della Paola di Piero della Lucia e della Katy. Ma più bella di tutta era la pianta grande, vicino al Tirapelle, Mi pareva che toccasse il cielo, i miei fratelli si arrampicavano su come gatti; una volta hanno provato a tirarmi su fino alla cima, ma io piangevo e quasi mi cagavo addosso dalla paura.
La pianta grande non andava bene per me, io preferivo le piante nella corte della scuola, dove giocavamo e dove mio papà mi aveva costruito anche una bellissima altalena.
In corte c'erano due cisterne profonde, che una volta servivano per prendere l'acqua del tetto quando pioveva. Dovevano arrangiarsi con quell'acqua anche quando era verde e vecchia d'estate. Ma Piero, mi aveva detto che in fondo a quelle cisterne c'erano i diamanti e bastava solo calarsi per la scaletta di ferro per trovarli e raccoglierli. Io sognavo di andare giù una volta o l'altra, ma avevo una fifa tremenda, ogni tanto alzavo il coperchio delle cisterne, spiavo dentro, ma dopo tagliavo la corda. Era proibito!
E poi c'erano tanti altri giochi da fare: cucinare i coleotteri dentro le scatolette di tonno con un po' di acqua, fare il mosto schiacciando i fiori dei papaveri, catturare i girini che nuotavano dentro la cava di pietra e tenerli dentro a una lattina, fare il funerale e la tomba alle lumache che catturavamo in orto, fare le trombe con i manici delle zucche, arrampicarsi su per i sassi dei Costoli, i sassi sopra la priara dove c'era anche un posto per sedersi che avevamo chiamato il trono del re.
Nelle sere d'estate, alle volte, partivamo tutti, fratelli, sorelle, fidanzati, e andavamo cantando fino all'osteria di Toni Gaetanello, e là, quando c'erano serate particolari, qualche volta bevevamo un bicchiere di ginger, seduti intorno a un tavolino all'aperto, con tanta gente attorno che beveva e giocava a carte. Quando nessuno mi vedeva, io scappavo dietro all'osteria, dove buttavano le immondizie, e trovavo i miei tesori, mi riempivo le tasche di tappi a corona. A casa ormai ne avevo un secchio, ma non erano mai abbastanza per un collezionista accanito come me.
Quando tornavamo a casa, il fidanzato di Maria si nascondeva in qualche cespuglio del bosco, oppure vicino al buso della stria, saltava fuori ululando come un lupo per farmi paura. ma io il mio mestiere di chierichetto lo facevo sempre con coscienza, frignavo un pochino, poi restavo dove ero e continuavo il mio lavoro, cioè sorvegliare i fidanzati.
Certe sere stavamo tutti in cortile, mio papà Ulisse aveva fatto un tavolino di marmo con una gamba unica fatta da un bidone bello grande. aveva anche installato una lampadina tirando un filo della luce, arrivava Primo Matteazzi (Polaton) con la sua Lambretta, giocavamo a carte, chiacchieravamo e ridevamo; certe volte mettevamo le angurie americane comprà da iko a Ponte di Barbarano, dentro alla cava della pietra. Nell'acqua fresca, ed era una festa quando toccava ad ognuno di noi una fettina di anguria. Ma il momento più bello me lo ricordo nella sera che Gianni con un filo aveva collegato il suo giradischi, con le canzoni di Celentano e con Fischia il vento urla la bufera, queste canzoni non le dimenticherò mai. Però anche “La donna immobile” era bella.
Alla sera una ad una certa ora di regola bisognava andare a letto, Alcune sere mi lasciavano il balcone aperto e allora aspettavo che passasse un'auto, capitava una volta o due la settimana. I fanali da lontano facevano il cinema sul muro. dopo si sentiva solo il cri cri dei grilli. E pensando alla storia della mosca mora, chi sta dentro e chi sta fora, mi addormentavo sereno.